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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

FEBBRE ITALIA

di Uri Dadush e Moises Naim -

L’Italia è la prossima Grecia? No, non lo è. La Spagna e gli altri Paesi europei infatti sono oggettivamente più vulnerabili dell’Italia. Quindi? Gli italiani dovrebbero essere contenti del fatto che il loro prossimo choc non sarà legato al crollo della Grecia ma, diciamo, a quello della Spagna? Certo che no. E questo è il messaggio cruciale che il governo italiano, nonché la sua élite politica, economica e mediatica faranno bene a tenere a mente: la principale minaccia per la stabilità economica dell’Italia non è né la situazione greca né quella spagnola. Il virus invisibile, ma altamente tossico, che sta minando l’economia italiana si chiama compiacimento.

Il fatto che l’Italia abbia governato meglio di altri la rotta durante le recenti tempeste economiche e il fatto che ora sembri meno probabile il rischio di una crisi massiccia come quella abbattutasi sulla Grecia, non significa che le fondamenta economiche dell’Italia siano robuste. O che i responsabili delle decisioni politiche possano rilassarsi. Non solo altri paesi europei sperimentano situazioni d’emergenza costanti e collassi economici che possono influenzare l’Italia ma, cosa ben più importante, senza urgenti correzioni, l’economia italiana si evolverà in modi che sono destinati a condurla verso una dolorosa crisi.

Questa possibilità può e deve essere evitata. Le informazioni, gli strumenti e le politiche ci sono e ne discuteremo qui di seguito. Ma è inutile avere a disposizione le politiche se non ne viene avvertito il bisogno nelle alte sfere governative e nel resto della società, e se i politici e gli altri leader continuano ad ignorare l’impellente necessità per l’Italia di rafforzare le proprie difese economiche. Tale preoccupazione dovrebbe stimolare i politici a cercare dei compromessi, a lavorare insieme, a creare un programma di riforme comune. Non siamo ingenui e sappiamo quanto sia difficile. Ma accadrà prima o poi. Più si rimanda, più doloroso sarà per gli italiani, specialmente per la classe media e per i ceti poveri che vanno aumentando.

Le recenti ’vittorie’ economiche dell’Italia non dovrebbero oscurarne la fragilità. Ad esempio durante la crisi l’Italia ha gestito meglio della Grecia e di altri paesi europei i conti pubblici. Il saldo delle partite correnti e il debito estero sono rimasti a livelli modesti. Le banche italiane non hanno avuto bisogno di grandi soccorsi. Il sistema pensionistico, recentemente riformato, resta sì uno dei più costosi in Europa, ma è più sostenibile di altri grazie alla riduzione delle rendite per chi si ritirerà in futuro. Infine lo spread tra i rendimenti dei titoli pubblici italiani e quelli tedeschi è cresciuto restando però minimo rispetto invece al differenziale con la Grecia.

Tuttavia è altrettanto vero che il debito pubblico italiano (in raffronto al prodotto interno lordo) equivale più o meno a quello greco e che gli indicatori demografici mostrano un declino della forza lavoro e un aumento dei costi della sanità e delle pensioni. E bisogna aggiungere che la capacità dell’Italia di competere a livello internazionale è andata drasticamente deteriorandosi come quella della Grecia. Per meglio dire, negli ultimi 20 anni la crescita della produttività dell’Italia è stata la più bassa di tutta l’area euro. Inoltre, la combinazione di questi tre fattori, debito elevato, declino della competitività e crescita anemica, significa che l’economia italiana rimarrà eccezionalmente vulnerabile a choc economici sfavorevoli. Collassi quasi inevitabili in uno scenario globale post-crisi altamente incerto.

L’economia italiana è affetta da tre pericolosi fattori di vulnerabilità. In primo luogo il debito pubblico, che è attorno al 115 per cento del Pil. Visto che i tassi sono oggi vicino al 4 per cento, per pagare gli interessi l’Italia spende ogni anno circa il 4,5 per cento del Pil. In pratica, quest’anno e il prossimo, gli italiani spenderanno in oneri sul debito la stessa cifra riservata alla pubblica istruzione. Qualora invece i creditori ritenessero che il Paese sia troppo rischioso, oppure i tassi d’interesse crescessero nuovamente vista la ripresa globale (come è sicuro che accada), i costi sarebbero molto più alti. chiaro che se aumentassero i tassi sul debito, i costi salirebbero anche per imprese e consumatori. Inoltre, anche supponendo che il saldo primario fosse zero (l’avanzo primario del bilancio è la differenza fra le entrate e le spese pubbliche esclusi gli interessi da pagare sul debito pubblico), già l’attuale costo degli interessi si tradurrebbe in un incremento del debito più veloce di quello dell’economia. Senza l’impegno a mantenere l’avanzo primario stabilmente in positivo esiste un serio rischio che ogni anno il peso del debito aumenti sempre di più. Di fatto, la stima unanime è che nei prossimi sette anni l’economia italiana crescerà in media di circa il 3 per cento in termini nominali, un punto percentuale in meno del tasso d’interesse pagato sul debito. E queste sono stime piuttosto ottimistiche poiché partono dal presupposto che i tassi di interesse restino stabili e che non avverrà alcun imprevisto né tantomeno che i suoi maggiori partner commerciali subiscano rallentamenti della propria attività economica. E c’è di più. Il debito dell’Italia ha una scadenza relativamente breve, il che implica ogni anno una richiesta di finanziamento relativamente alta. Di conseguenza l’Italia è potenzialmente più vulnerabile di altri paesi di fronte ad un cambiamento di opinione del mercato.

Il secondo fattore di vulnerabilità riguarda il costo del lavoro che in Italia è cresciuto più dei paesi concorrenti. Questo fatto, oltre ad essere ben noto, rappresenta anche una grave minaccia alla stabilità e alla prosperità del Paese. Un esempio: nell’ultimo decennio il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 25-30 per cento rispetto a quello dei lavoratori tedeschi. La perdita di competitività è ancora più drammatica se paragonata ai salari di Stati Uniti, Giappone e Cina. Questi ultimi rappresentano grandi mercati per le esportazioni italiane e sono spesso sede di imprese che competono con gli esportatori italiani sui mercati internazionali. Le conseguenze della perdita di competitività dell’Italia sono pesanti e stanno impoverendo tutti gli italiani. Secondo una recente analisi globale sulla competitività dell’area euro effettuata dalla Commissione di Bruxelles per ciò che riguarda il decennio 1998-2008, le esportazioni italiane di beni e servizi sarebbero cresciute più lentamente rispetto a quelle di tutti gli altri paesi membri. Sempre secondo questa analisi, l’Italia avrebbe perso gran parte della propria quota di mercato nelle sue tradizionali aree geografiche. Presenza estera crollata anche al di là di quanto sarebbe giustificato solo da fattori legati ai costi. Alcuni economisti ritengono che miglioramenti di qualità hanno consentito ad alcune aziende italiane di spuntare prezzi superiori bilanciando così la caduta delle vendite in volumi. Ma non ci può essere disaccordo sul fatto che la bilancia commerciale sia andata in territorio negativo malgrado la crescita della domanda interna sia stata per molti anni ai livelli più bassi in Europa.

Nell’economia globale integrata di oggi è impossibile crescere a un ritmo europeo persino modesto senza essere competitivi sui mercati mondiali. Sfortunatamente, senza lo stimolo delle esportazioni, molte imprese italiane resteranno di piccole dimensioni e incapaci di sfruttare le economie di scala che i mercati globali permettono, poiché l’andamento demografico e dei consumi dell’Italia sono fra i peggiori al mondo e focalizzare l’attenzione sui mercati nazionali equivale a rallentare la crescita economica del Paese.

Il terzo elemento di vulnerabilità viene dalla combinazione potenzialmente esplosiva dei primi due fattori citati, che si rafforzano a vicenda in un circolo vizioso. molto difficile ridurre l’entità di un debito pesante se non esiste crescita. Per definizione, un’economia in espansione può sopportare un debito maggiore o può permettersi di produrre un’attività in grado di pagare gli interessi invece che la costruzione di scuole e ospedali. Ed è l’espansione dell’economia a generare il gettito fiscale capace di ripagare il debito. D’altro canto, un debito elevato peggiora la competitività e i problemi di crescita, poiché incrementa i tassi d’interesse attraverso tutto il processo economico. Anche un debito pubblico elevato rende cauti e diffidenti gli investitori i quali sanno che un aumento delle tasse è praticamente dietro l’angolo. Nelle economie che non appartengono all’area euro, ad esempio nel Regno Unito di oggi o nell’Italia degli anni ’90, una svalutazione della moneta per restituire competitività e aiutare la crescita attraverso l’incremento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni, avrebbe potuto bloccare il circolo vizioso. Ma questa, ovviamente, non è più una soluzione percorribile.

Rischio collasso

Tali fattori di vulnerabilità non sono una novità, ma ben noti agli esperti e all’opinione pubblica. Ma il problema è proprio questo: gli italiani si sono abituati a vivere sotto la minaccia che questi elementi di vulnerabilità possano un giorno esplodere e portare al collasso. La ’serena coesistenza’ con questi pericoli così chiari e presenti non è più accettabile. La crisi greca e quella che potrebbe colpire la Spagna o l’Irlanda mostra quanto sia sconsiderato vivere in una casa il cui tetto potrebbe caderci in testa da un momento all’altro. Se ciò non è accettabile per una famiglia, lo è ancor meno per un intero Paese.

Questa non è ’sempre la stessa solfa’. Ma una situazione nuova in cui i tassi d’interesse stanno rispondendo alle paure dei livelli del debito sovrano e le vecchie abitudini sono divenute pericolose.

Ad esempio, sono quattro le tempeste economiche che quest’anno o il prossimo potrebbero causare il crollo del tetto sulla testa dell’Italia.

1. L’impatto della crisi greca sugli altri paesi porterà ad un rialzo dei tassi d’interesse che si riverserà nel settore privato e ucciderà la ripresa nei paesi euro più deboli, peggiorando ancora di più il problema del debito. Ne conseguirà più disoccupazione, deficit più alti e un ulteriore deterioramento dei servizi pubblici.

2. Il vacillare della ripresa globale una volta che le misure di stimolo non sono più efficaci. E che rischi sovrani e banche fragili possano spaventare i mercati.

3. Qualora però la crescita globale fosse sostenuta, i tassi di interesse risalirebbero dai livelli minimi storici e la domanda di petrolio dei mercati emergenti continuerebbe ad aumentare. Di conseguenza un altro grande collasso petrolifero potrebbe colpire il mondo nel 2011, scatenando un ulteriore rallentamento globale. Allora l’Italia, il Paese che più dipende dalle importazioni di petrolio ed è peggio piazzato per quanto riguarda l’aumento delle esportazioni con le quali riuscirebbe a pagare il suo fabbisogno petrolifero, verrà colpita duramente.

4. L’eventualità più perniciosa è che l’Italia continui a perdere competitività nei confronti della Germania e di altri paesi, che i salari aumentino più rapidamente della produttività e che le imprese italiane siano sempre più care sui mercati mondiali e si vedano obbligate a riposizionare la propria produzione nei paesi dell’Europa dell’Est o da qualche altra parte. Se non controllato, questo processo, ormai in atto da molti anni, porterà alla fine verso un lento strangolamento della capacità di crescita dell’economia, fino ad un suo stallo totale. I mercati finanziari alla fine reagiranno (oppure anticiperanno l’andamento), forzando un rialzo degli oneri sul debito delle dimensioni di quello della Grecia. Il problema qui non è di spaventare la gente, ma di sottolineare il fatto che gli choc all’Italia, già economicamente vulnerabile, potrebbero arrivare da più fonti e che anche una ripresa sostenuta può nascondere pericoli.

Che fare?

L’Italia non dovrebbe attendere l’infarto, bensì cercare di tenere sott’occhio la pressione alta, il peso in eccesso, il vizio del fumo. Nei prossimi tre anni, ha bisogno di incrementare il suo avanzo primario di almeno il 4 per cento del Pil per assicurarsi che il suo rapporto debito/Pil torni verso un graduale declino, riassicurando così i mercati in merito al fatto che il Paese ha i conti pubblici a lungo termine sotto controllo. Per fare un raffronto, ci si aspetta che nello stesso lasso di tempo la Grecia, con accordo dell’Unione europea, migliori il proprio avanzo primario del 10 per cento del Pil.

L’Italia ha anche bisogno di riconquistare competitività, ma con il costo del lavoro per unità di prodotto della Germania che non cresce (i salari aumentano solo se aumenta la produttività del lavoro), fare ciò richiede una riduzione del costo del lavoro, in altre parole i salari italiani devono crescere meno rapidamente della produttività. Ma di quanto? Un buon inizio sarebbe un 6 per cento di ripresa della competitività nel giro di tre anni - circa un quarto di quella persa nei confronti della Germania nel corso degli ultimi dieci anni. Persino più importante della cifra sarebbe il segnale inconfondibile che le cose stanno cambiando e che l’andamento negativo si fermi e arrivi persino a capovolgersi.

Questa effettiva svalutazione potrebbe essere raggiunta subito attraverso un taglio dei salari del 6 per cento, cominciando, come in altri paesi, con il settore del pubblico impiego (anche se questa è una via politicamente dura da perseguire), oppure attraverso un più graduale processo di congelamento dei salari per tre anni e mettendo in atto riforme strutturali che aumentino la produttività del 2 per cento all’anno rispetto alla recente tendenza. Essendo complicato accelerare la produttività nel breve periodo, risulta più perseguibile una combinazione tra riforme strutturali e un modesto taglio dei salari. Riforme strutturali decisive dovrebbero includere la rimozione di regole che creano un duplice mercato del lavoro in cui, mentre alcuni lavoratori sono protetti e coccolati, altri - ironicamente spesso i più giovani e acculturati - sono obbligati a svolgere per anni lavori precari e mal pagati. Un altro intervento determinante sarebbe quello di incrementare l’efficienza di servizi e infrastrutture che influenzano la competitività delle imprese, dall’energia alle telecomunicazioni e ai trasporti. Sarebbe poi necessario liberalizzare il commercio al minuto e i servizi professionali.

Questi cambiamenti a livello nazionale sono essenziali e l’Italia ha bisogno di perseguirli a dispetto di tutto. Inoltre, c’è un ruolo importante che gli ambasciatori dell’economia italiana devono svolgere cominciando da quelli che rappresentano il Paese a Francoforte, Bruxelles e Berlino. In poche parole, essi devono staccarsi inequivocabilmente dalla linea tedesca e trasmettere il messaggio che l’aggiustamento in Italia come in altri Paesi vulnerabili sarebbe aiutato da un allargamento più rapido dell’area euro. Ciò richiederebbe che la Germania e gli altri Paesi con un saldo attivo della bilancia commerciale di elevata entità si impegnassero a stimolare i consumi nazionali e gli investimenti e facessero meno affidamento sulle esportazioni europee. Come abbiamo recentemente sostenuto in un articolo pubblicato sul ’Financial Times’, è altresì indispensabile che, anche una volta superata l’attuale crisi globale, la Banca centrale europea adotti una politica monetaria più espansionistica di quella perseguita prima della crisi, politica che rifletta il bisogno di adattamento in gran parte dell’Europa e non solo le preferenze dei fondamentalisti dell’inflazione.

Inoltre, nel corso di questo periodo cruciale, l’obiettivo esplicito della Banca centrale europea dovrebbe essere un euro debole, per stimolare la competitività di tutta l’Europa.

Anche altri paesi europei e non possono dare un contributo. Il G20, che è ora il veicolo di coordinamento per la politica economica internazionale e include paesi quali la Cina e l’India, giganti dell’economia emergente a rapida crescita, ha la necessità di riconoscere che una sequenza di crisi del debito sovrano in Europa sarebbe destinata a riversarsi su alcuni mercati emergenti vulnerabili e potrebbe influenzare gli oneri sul debito di Giappone e Stati Uniti, così come le esportazioni di tutti. In altre parole, tale crisi rappresenta un grande rischio per una ripresa globale sostenuta. Un euro debole è il premio assicurativo di cui ha bisogno il G-20 per evitare un’implosione della stessa area euro.

Una mentalit pericolosa

Le riforme qui delineate sono dolorose e impopolari e richiederebbero un grande coraggio politico, elemento che di solito scarseggia e non solo in Italia.

Le proposte avanzate in questo articolo possono essere facilmente ridicolizzate e licenziate, sulla base del fatto che esse ignorano la realtà politica dell’Italia, la distribuzione del potere e persino la cultura nazionale. Lo sappiamo. Sappiamo anche che molti anni vissuti in ’serena coesistenza’ con pericolose minacce economiche e una situazione economica precaria hanno creato la forte illusione che qualunque cosa accada, in un modo o nell’altro, l’Italia finisca sempre per far meglio di quanto predicono regolarmente gli esperti catastrofisti che non ne comprendono il reale funzionamento.

 cosa ben nota anche il fatto che le cifre e le statistiche italiane siano piuttosto confuse e che ci sia una ’economia sommersa’ più forte, più dinamica e più sana di quella che riferiscono i dati ufficiali.

Crediamo fermamente che questo modo di fare sprezzante ignori i fatti che riguardano le deprimenti prestazioni economiche dell’Italia degli ultimi anni. Una mentalità che è anche pericolosa poiché sostiene un atteggiamento di compiacimento e passività, che crea una politica di stagnazione capace prima o poi di danneggiare tutti gli italiani. Se non altro, le crisi avvenute in Grecia e Spagna evidenziano che i cambiamenti in Italia sono inevitabili. Arriveranno dal governo e da una società che troverà il modo di collaborare al fine di evitare un ulteriore declino economico oppure arriveranno come inevitabile conseguenza di forze economiche spietate. Non esistono soluzioni facili e indolori. Aspettarle contribuirà soltanto ad aumentare il dolore.

Uri Dadush è associato del Carnegie Endowment di Washington e Moises Naim è il direttore della rivista ’Foreign Policy’

Traduzione di Rosalba Fruscalzo