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 2010  aprile 16 Venerdì calendario

RICOLFI, ESERCIZI DI DISINCANTO

Che cosa riusciamo veramente a conoscere della realtà che ci circonda? Quali precise consapevolezze ispirano i nostri comportamenti? Nell’epoca della massima diffusione di media, dai giornali alla rete, ai social network, bombardati di informazioni di minuto in minuto, quanto possiamo capire il mondo in cui viviamo e quanto invece ci illudiamo di capirlo, prigionieri di stereotipi? In particolare quando ci occupiamo dei problemi italiani, dagli immigrati alla criminalità, dal precariato alla sanità, dal federalismo all’istruzione, fino a questioni mai risolte come il divario Nord-Sud, siamo sicuri di approdare a certezze o non finiamo piuttosto preda di credenze, da quelle ideologiche al politicamente corretto?
Sono gli interrogativi con cui si confronta, sorretto da una buona dose di anticonformismo, il sociologo e politologo Luca Ricolfi, dell’Università di Torino, nel nuovo libro dal titolo sintomatico Illusioni italiche (Mondadori, pp. 169, e18). Fondatore dell’Osservatorio del Nord-Ovest, editorialista della Stampa, autore di saggi che hanno fatto il quarantotto nella bonaccia della politica italiana (Perché siamo antipatici, sull’arroganza della nostra sinistra, o Il sacco del Nord, sulla giustizia territoriale), rielabora in queste pagine una quarantina di micro-saggi apparsi per lo più nella rubrica «Fatti & credenze» sul settimanale Panorama, in cui si vede come l’opinione pubblica anche più attenta possa lasciarsi sviare da abbagli o equivoci.
Facciamo un esempio. Il mito della scuola elementare, come lo chiama Ricolfi, registra un consenso quasi unanime, con un permanente elogio delle virtù dei maestri. Ma è un mito zoppo, come l’autore dimostra in uno dei capitoletti in cui il libro è organizzato, mettendo in luce tre falle. Innanzi tutto, la scuola elementare è ottima nella lettura (al primo posto nel confronto con dodici paesi europei) ma è soltanto discreta in scienze e insufficiente in matematica, quindi non è ai primi posti nel mondo ma in una dignitosa posizione di centro classifica. In secondo luogo, le indagini suggeriscono che il successo nella lettura sia dovuto alla frequenza della scuola materna, da noi più estesa che all’estero. Terza falla: il declino del sapere nei nostri studenti, calcolato sulla percentuale di risposte esatte a test valutativi, avviene soprattutto tra seconda elementare e prima media, il declino minore tra prima media e prima superiore. Conclusione: «Forse l’anello forte (o meno debole) è la scuola media inferiore, mentre è proprio la mitica scuola elementare a costituire l’anello debole, il luogo in cui si prepara meticolosamente il disastro».
L’esempio è indicativo d’un «metodo Ricolfi». Il punto di partenza, attorno al quale ruota il libro, sono le credenze empiriche da cui ci lasciamo incantare, anche quando sono false o semplicemente indimostrate. Perché le facciamo nostre? Perché accettiamo l’autoinganno? La risposta è stata data da un grande psicologo sociale, Leon Festinger, che nel 1957 ha elaborato la teoria della «dissonanza cognitiva», secondo la quale lo scopo che guida la nostra mente non è una rappresentazione fedele della realtà bensì una rappresentazione rassicurante. Nel senso che minimizza le dissonanze e i contrasti. Perché non ci piace essere in conflitto con le nostre convinzioni. Il libro ricorda che il sociologo di sinistra Maurizio Barbagli ha confessato in un’intervista di essersi rifiutato per anni di accettare i dati sul tasso di criminalità degli immigrati più alto di quello degli italiani, perché in dissonanza con le sue idee e credenze politiche. «Pochi sono in grado di sopportare la dissonanza - commenta Ricolfi - ma quasi tutti sono allenati a manipolare i fatti per proteggere la propria identità e i propri valori».
A queste manipolazioni l’autore di Illusioni italiche contrappone quelli che chiama «esercizi di disincanto»: smontare cioè le credenze, sottoporle al vaglio dei fatti, confrontarle con tutti i dati, soprattutto quelli scomodi, rifiutando le tendenze che cancellano la distinzione tra fatti e opinioni, fenomeno che si celebra «nel grande circo della cosiddetta informazione» e che trova nella Rete una straordinaria propagazione.
Così constàti che il precariato riguarda solo l’uno per cento della forza lavoro totale e che il vero dramma è invece il contrasto tra lavoratori subordinati iperprotetti o ipoprotetti, Oppure scopri che dietro la bandiera del federalismo i leghisti finiscono con l’accettare il salvataggio del comune di Catania e i finanziamenti a Roma capitale. Gli stessi dati possono essere un totem o una credenza: «Se i mali che combatti si stessero esaurendo tu non avresti ragione d’esistere. Che ne sarebbe della Chiesa senza la fame nel mondo?». Quando Ricolfi s’imbatte in una definizione di Michele Serra, « di destra chi vota avendo per guida i propri interessi, di sinistra chi vota pensando all’interesse collettivo», analizza i dati elettorali mostrando che al contrario i ceti più garantiti votano Pd quelli più a rischio scelgono Pdl. Niente di più difficile che definire le identità dei votanti. Tanto che a Ricolfi la cosa ricorda una domanda di suo figlio davanti al micio di casa: «Ma il gatto lo sa, di essere un gatto?».