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 2010  aprile 16 Venerdì calendario

L’EQUIVOCO DEL TERRITORIO

La conquista elettorale del Nord da parte della Lega ha riaperto la partita tra la politica e i «signori delle banche».
L’annuncio, questa volta, non è filtrato dalle intercettazioni rivelatrici della speranzosa domanda di Fassino, («Allora, abbiamo una banca?»), come all’epoca della scalata alla Bnl. Ma dalle esplicite e sbrigative intenzioni espresse da Bossi («La gente ci dice prendetevi le banche, e noi lo faremo»).
La nuova offensiva sfrutta certamente lo spirito dei tempi. Una crisi finanziaria ed economica, senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo, ha determinato difficoltà di credito, soprattutto per le piccole e medie aziende e, almeno sul piano internazionale, ha gettato un generico discredito e una generica diffidenza sull’operato dei banchieri. Ecco perché, come era già avvenuto nella precedente legislatura a guida del centrodestra, nel mirino sono tornate le Fondazioni ex bancarie, porte d’ingresso per l’influenza della politica locale e, magari, anche nazionale, nell’era del mercato globale.
Durante la seconda repubblica, questi enti di diritto privato, inventati dalla alchemica fantasia giuridica di Giuliano Amato, sono riusciti a erigere un efficace filtro tra il mondo della politica e quello della società civile, consentendo l’unica vera «rivoluzione» realizzata negli anni seguiti a Tangentopoli: il tramonto del dominio partitico e lottizzatorio su istituti di credito piccoli, per dimensioni, e sostanzialmente estranei al mercato internazionale e alle sue regole. La memoria, anche la più distratta, non può dimenticare le vicende del Banco Ambrosiano, del Banco di Napoli, di quello di Sicilia, della Banca di Roma, della stessa Bnl, istituti infeudati dalla politica e condotti al fallimento o all’orlo del dissesto.
Se il passato non induce alla nostalgia, il presente conforta la constatazione di una ben diversa realtà. Le nostre banche non solo si sono dimostrate competitive sui mercati finanziari, ma hanno manifestato, proprio rispetto alla concorrenza straniera, una solidità invidiabile davanti alle gravi scosse della crisi. Bisogna dar atto alle Fondazioni, maggiori azioniste delle più importanti banche nazionali, di aver esercitato un meritorio ruolo di garanzia dell’autonomia degli amministratori e di aver assicurato il rispetto delle regole del mercato.
L’osservazione che questi istituti debbano preoccuparsi soprattutto della tutela del territorio di cui sono espressione, grimaldello dialettico per aprirle al diretto condizionamento della politica, cela, in realtà, un equivoco. Il tanto celebrato «territorio» deve essere il beneficiario degli utili che le banche forniscono alle fondazioni. Non dev’essere il trampolino della politica per piazzare ai vertici delle banche uomini che assicurino finanziamenti ai loro partiti o ai loro amici di riferimento. Anche perché, quegli utili, prima di distribuirli, vanno realizzati. In un mercato aperto, in cui la credibilità e la fiducia degli investitori internazionali, a partire dai fondi pensione di mezzo mondo, vanno conquistate giorno per giorno e si possono perdere molto in fretta.
A proposito del ruolo delle Fondazioni, in una sfortunata coincidenza di tempi con le dichiarazioni di Bossi, è arrivata, dalla Compagnia di San Paolo, la designazione di Domenico Siniscalco alla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. L’esito dello scontro tra Angelo Benessia ed Enrico Salza sembra destinato a concludersi, quindi, con la vittoria del presidente della Compagnia. All’attuale presidente del consiglio di gestione si rimprovera di non aver difeso sufficientemente, dopo la fusione, il peso di Torino rispetto al più potente partner milanese. Una accusa, fondata o meno che sia, che non può certamente far dimenticare il ruolo esercitato, per tantissimo tempo, da Salza per la promozione e lo sviluppo della capitale subalpina in campo nazionale e internazionale. Ma l’obiettivo di una sua sostituzione non dovrebbe far trascurare, anche in questo caso, il rispetto delle regole e la distinzione dei ruoli nella triangolazione politica-fondazione-banca.
I compiti dell’azionista non sono quelli dell’amministratore e il mestiere del banchiere non può confondersi con quello del funzionario di partito. Tutto ciò non per un ossequio al formalismo o all’ipocrisia. Ma perché è l’unica garanzia che i soldi del cittadino, raccolti allo sportello, siano tutelati dal rischio dell’insolvenza della banca o dello sperpero al finanziamento clientelare. E’ vero che le Fondazioni non possono essere azionisti silenti e passivi e che gli istituti di credito non si possono trasformare in potenze autoreferenziali, senza alcun controllo. Ma il controllo del mercato è sempre preferibile a quello dei politici.