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 2010  aprile 16 Venerdì calendario

SCONTRO BERLUSCONI-FINI

(articoli di venerdì 16/4/2010. Vedi anche scheda 206052) -

FINI E BERLUSCONI VICINI AL DIVORZIO
ROMA – Stavolta non potrà finire come è sempre finita, con la finta pace che è una finta tregua che alla fine è un niente di fatto e dopo i sorrisi si torna a farsi la guerra. Stavolta Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno messo le carte in tavola. In un incontro tesissimo a Montecitorio, alla presenza di Gianni Letta, il presidente della Camera ha chiarito quale svolta chiede al partito e al governo per non imboccare una strada da Berlusconi già considerata senza ritorno: la creazione di un gruppo parlamentare autonomo, che si chiamerebbe Pdl-Italia, che potrebbe contare secondo i finiani su una cinquantina di deputati e una ventina di senatori mentre secondo gli ex forzisti si fermerebbe a meno della metà dei numeri ipotizzati ma sarebbe sufficiente «per rendere quasi impossibile il lavoro alla Camera».
Per fermare la deriva, il presidente della Camera ha chiesto al premier un deciso cambio di rotta: nel rapporto con la Lega, che non può «continuare a dettare legge, perché sarebbe la fine dell’Italia, non solo del Pdl», e nel partito, che deve cambiare faccia. Il che significa, tradotto, l’azzeramento delle cariche nei gruppi e nel partito che oggi sono in rappresentanza del 30% destinato all’ex An, dal coordinatore La Russa al capogruppo al Senato Gasparri fino agli uomini di Alemanno e Matteoli, che secondo Fini non lo rappresentano in alcun modo. Insomma, dovrebbero essere finiani di stretta osservanza a sostituirli.
Berlusconi ha chiesto a Fini di non compiere alcuna mossa per almeno 48 ore: «Vedrò cosa si può fare». Ma subito dopo il pranzo, l’ex leader di An ha riunito tutti i suoi fedelissimi, ha lasciato che si diffondesse la voce che al centro della riunione c’era il sondaggio sulla disponibilità ad aderire al Pdl-Italia, e solo a metà pomeriggio ha diramato una nota in cui afferma che Berlusconi deve continuare a governare fino «alla fine della legislatura», che il Pdl va «rafforzato e non indebolito», che deve essere «un grande partito nazionale» attento alla «coesione sociale dell’intero Paese», alle riforme, ai diritti civili, e che su questo si attendono le «serene valutazioni» del premier.
Non parla di gruppi autonomi Fini, ma lo fa subito dopo in una nota – e dunque ufficialmente – il suo fedelissimo Italo Bocchino, per dire che sono «possibili» in caso di «risposte negative del premier». un vero ultimatum, che sconquassa la maggioranza nel suo giorno più difficile. Negano sia dall’entourage di Berlusconi che da quello di Fini che il premier abbia intimato all’alleato di dimettersi da presidente della Camera se darà vita ai gruppi, ma Quagliariello avverte che se Fini diventasse «protagonista di un’operazione politica tra le più dure degli ultimi anni, si troverebbe in contrasto con il suo profilo istituzionale, e sarebbe quasi una dimissione naturale dal ruolo di presidente della Camera».
In questo clima, il fantasma delle elezioni anticipate si materializza per bocca del presidente del Senato, Renato Schifani (il che peraltro avrebbe suscitato lo «stupore» del Quirinale): «Quando una maggioranza, eletta sulla base di un programma elettorale condiviso tra le coalizioni, si divide al proprio interno sull’attuazione del programma, non resta che ridare la parola agli elettori e ripresentarsi a questi con nuovi progetti ed eventualmente con nuove alleanze ove necessarie». Secca la replica di Bocchino e Ronchi: si vota solo se «non c’è una maggioranza», dunque si tratta di un’arma spuntata. Forse, ma Berlusconi non la esclude mentre fa sapere che lui non ha «assolutamente niente da rispondere» a Fini, dica lui piuttosto cosa intende fare. E che la linea sia tracciata e il Cavaliere non abbia alcuna intenzione di fornire sponde all’alleato lo dimostra anche la nota dei coordinatori al termine della giornata: Fini ha avuto un «comportamento incomprensibile» che suscita «profonda amarezza». Una rottura drammatica. Magari non definitiva, se solo qualcuno avesse una pallida idea di come fare a ricucirla.
Paola Di Caro, Corriere della Sera


ORMAI IL LEADER HA SCELTO BOSSI
La crisi fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è ancora virtuale. Ma difficilmente potrà essere smaltita, dopo il pranzo di ieri che doveva ritentare una tregua. una conseguenza delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo, che hanno cementato il rapporto fra il premier e Umberto Bossi. Era lo scenario che Fini sperava più o meno segretamente di vedere sconfitto dalle urne. L’asse è diventato così vistoso da dare corpo ad una diarchìa nella quale la Lega rivendica il ruolo di vincitore; ed il centrodestra sembra indifferente al pungolo del presidente della Camera. Il suo scarto appare dunque come il tentativo estremo, e probabilmente fuori tempo massimo, di spezzare una dinamica non creata ma certificata dal voto. Il riserbo iniziale ostentato dai due commensali aveva già alimentato molti sospetti; la dichiarazione ufficiale resa nel pomeriggio da Fini li ha rafforzati. Quando ricorda che il Pdl deve avere «piena coscienza di essere un grande partito nazionale», l’ex capo di An polemizza con i «diarchi»: in particolare con i cedimenti che a suo avviso Berlusconi colleziona per placare il protagonismo del «padano» Bossi. Le sue parole lasciano intuire una richiesta di ruolo e di spazio nel Pdl, che un anno di partito unico ha brutalmente ridimensionato. E rilanciano l’idea dell’«altro centrodestra», coltivato in modo sempre più solitario da Fini; e reso evanescente dall’esito delle regionali. Il progetto viene riproposto adesso con un forte carica polemica; e con un’analisi del voto che accredita un Pdl perdente a vantaggio della Lega, e dunque indebolito: un’impostazione agli antipodi con quella di Berlusconi che invece rivendica comunque un netto successo del governo. Il premier ritiene che se il partito ha perso qualcosa nel Nord, è soprattutto per le tesi di Fini in materia di immigrazione. Pensare dunque che il recupero possa partire da una competizione con Bossi su quei temi viene considerato velleitario, se non suicida. Il presidente della Camera dice di «attendere serenamente» le valutazioni berlusconiane: gli ha consegnato una sorta di penultimatum di 48 ore. Ma si tratta di una serenità contraddetta dalla minaccia finiana di dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo. La sola evocazione di un’iniziativa del genere costituisce uno strappo, almeno psicologico. Berlusconi avverte che se Fini abbandona, di fatto, la maggioranza, dovrebbe lasciare anche la presidenza della Camera. Siamo ancora ai «se». Ed i tempi che i capi del Pdl si sono concessi per decidere lascia in teoria qualche margine. Ma se davvero si dovesse arrivare alla rottura, non si possono escludere contraccolpi traumatici: il presidente del Senato Renato Schifani parla di elezioni anticipate. Sarebbe il paradosso di un centrodestra che vince e poi implode, scaricando i suoi conflitti interni sul Paese.
Massimo Franco, Corriere


«LE ULTIME ACCUSE: HAI COMPRATO GLI EX DI AN E LA LEGA TI RICATTA»
«Elezioni anticipate? Ma davvero c’è chi pensa che in Parlamento non ci sarebbero i numeri per formare un altro governo?». Fini non lo pensa, così com’è altrettanto chiaro che non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi del ribaltone.
Dopo una vita passata a condannare quelli che in un discorso alla Camera additò come i «puttani della politica», non sarà certo Fini a fare il voltagabbana. Semmai la constatazione del presidente della Camera è il segno dell’escalation nello scontro con Berlusconi. E dal tono basso della voce s’intuisce lo stato d’animo dell’ex leader di An, un misto di rabbia e di determinazione, l’idea cioè che era inevitabile lo showdown con l’altro «cofondatore» del Pdl, che non fosse possibile andare avanti così, «perché per un anno ho posto i problemi con le buone, e la cosa non ha sortito effetti. Ora vedremo se Berlusconi capirà».
Durante il pranzo pare che il premier non l’abbia capito, se è vero che Fini ritorna con la mente al colloquio e lo racconta con un senso di stupore: «Io gli parlavo delle questioni e lui mi rispondeva con le frasi che aveva usato al comizio di piazza San Giovanni...». E le «questioni» sollevate sono altrettanti nodi politici, esplicitati con crudezza verbale inusitata: «Tu, Silvio, hai abdicato al tuo ruolo. E io sono stato condannato alla marginalizzazione. La Lega ti ricatta. L’economia è in mano a Tremonti. Il 30%, che era la quota di An nel Pdl, è composto da persone che hai comprato».
A Gianni Letta è toccato festeggiare il compleanno in un clima che di festa non aveva nulla, e ha constatato di persona quanto sia profonda la rottura tra i due, per quanto non ancora irreversibile. in quegli spazi angusti che il braccio destro del Cavaliere lavora per tentare di trovare un compromesso, che Berlusconi però non vuol concedere, sebbene si sia licenziato dall’inquilino di Montecitorio, dicendo: «Diamoci tempo, almeno fino a lunedì». «Io aspetto», commenta l’ex leader di An: «Dipende da come reagirà Berlusconi, quali iniziative vorrà assumere, se si rende conto che i problemi ci sono, che non me li sono inventati. Io aspetto di sapere come pensa di affrontarli e risolverli».

«L’impegno della concertazione», per esempio, non è mai stato
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Francesco Verderami, Corriere


LO SFOGO DEL CAVALIERE: SE VA VIA FINISCE L’INCUBO E LO SEGUONO IN 7 O 8
Sembra che Fini si sia preso due giorni di tempo, Berlusconi sono mesi che dice di non avere tempo da perdere. Ovviamente con Fini. Da ieri pomeriggio per il premier il vaso è traboccato. Meglio semmai impegnarsi nella ricerca di truppe di rincalzo, magari nell’Udc, per bilanciare l’eventuale fuoriuscita dei finiani dalla maggioranza. uno scenario verosimile? Forse no, ma il Cavaliere è convinto che non sarebbe un dramma: «Se andasse via – ha confidato – al massimo lo seguirebbero sette-otto persone e sarebbe la fine di un incubo».
Ieri pomeriggio Berlusconi si è sentito anche sollevato. Al termine dell’incontro con il presidente della Camera si è concesso una passeggiata per le vie del centro della capitale, risposta plastica ad un pranzo tempestoso. Ha scherzato con gli amici dicendo di sentirsi più leggero: non più legato al dovere di mediare continuamente sulle richieste del cofondatore del Pdl, che alla sua sensibilità sono sempre apparse questioni di lana caprina, inutile perdita di tempo.
Di che si tratti è chiaro alla cerchia dei più stretti collaboratori di Berlusconi: Maurizio Gasparri non va più bene, a Fini, come capogruppo del Pdl al Senato? Non è un problema del Cavaliere. Ignazio La Russa dà ombra al presidente della Camera? Anche in questo caso il premier considera la questione minimale, comunque tutta interna alla matrice stessa della famiglia finiana. Alcuni coordinatori regionali andrebbero sostituiti? Alcuni indirizzi del governo modificati? Esistono un partito ed organi che discutono, si riuniscono e poi decidono. C’è un’assenza di democrazia interna? Non è una questione che si può risolvere a tavolino davanti a una sogliola. In sintesi, con le parole ufficiose di Palazzo Chigi: «I problemi li ha posti Fini, per noi non esistono, non sono mai esistiti, non dobbiamo dare alcuna risposta».
Esiste invece, agli occhi del Cavaliere, una sostanziale questione di tempi. Fini, dice, i tempi li ha sbagliati tutti. Lui è appena rientrato dagli Stati Uniti, dal vertice sulla sicurezza nucleare voluto da Obama, sarà domenica ai funerali del presidente polacco, andrà alla fiera di Hannover lunedì prossimo, ha spedito ieri una lettera ai vertici della Ue scritta insieme a Sarkozy. Ultimo, ma non ultimo: ha appena vinto le elezioni. Se il vaso è colmo, agli occhi del presidente del Consiglio, è anche per l’accelerazione di un confronto mirato allo scontro su un’agenda ritenuta marginale, quasi pretestuosa ed in ogni caso tutta interna all’assetto della maggioranza, che i primi a non capire sono proprio gli elettori del Pdl.
Persino a Palazzo Chigi, fra coloro che di solito sono prudenti, si registra scarso ottimismo. Non ci sarebbero più margini per una ricomposizione. Altre volte, troppe volte, la polvere è andata a finire sotto il tappeto, per riaffiorare al pranzo successivo. Nei mesi scorsi Berlusconi ha immaginato più volte un Popolo della Libertà senza Fini, ne ha parlato in privato, sceneggiando un futuro in cui persino il ritorno al voto non era escluso, mentre il partito cambiava nome, per conservare gli elettori, al netto dell’ alleato. Ieri aggiungeva una speranza più immediata: non averlo più come presidente della Camera.
Se glielo abbia detto in faccia o meno, in fondo, cambia poco. All’ora di cena, a casa sua, con i coordinatori del partito convocati in gran fretta, insieme all’impulsiva minaccia di un ritorno al voto riassumeva così: « stato lui a promettermi di fare un passo indietro il giorno in cui fosse tornato a fare politica piena, spero proprio che adesso, se andrà avanti, onori quella promessa». Infine una postilla: «Ovviamente chi fa o promuove un gruppo parlamentare diverso dal Pdl si pone fuori dal partito». già scattata la conta sui numeri e il Cavaliere resta convinto di aver fatto bene i suoi conti.
Marco Galluzzo, Corriere


DUBBI DI COLONNELLI E FEDELISSIMI
Cinquanta, quaranta, venticinque deputati. Otto, dieci, tredici senatori. Forse di più, probabilmente di meno. Ballano i numeri dei possibili aderenti al Pdl-Italia, ma una cosa è certa: con il passare delle ore, in tanti ci tengono a puntualizzare che loro, pur provenendo dall’ex An, resteranno fedeli al Pdl e non si muoveranno da lì. Chiaro che il corteggiamento da parte dei fedelissimi del premier è già in atto, e come dicono da via dell’Umiltà «una cosa è dire che si fa un gruppo, un’altra è farlo», sapendo che salterebbe la ricandidatura per aggregarsi a un progetto che come dice Berlusconi «è suicida». Ed ecco allora che già ieri pomeriggio sono venuti ufficialmente allo scoperto o comunque hanno fatto sapere che non aderiranno al gruppo autonomo finiano, ex An di peso come De Corato, Beccalossi, Nespoli, Ramponi, Ascierto, Gramazio, Berselli e Caruso. Tutti convinti peraltro, come altri che si mostrano perlomeno dubbiosi sull’iniziativa di Fini, che il gruppo non abbia sufficiente radicamento territoriale per camminare sulle proprie gambe, apparendo al contrario «come un’operazione di vertice» che potrebbe non avere futuro.
Corriere della Sera


LA COABITAZIONE FORZATA TRA COLPI BASSI E TREGUE
«Ma no, datemi retta: non immaginatevi urla o pugni sul tavolo. Il colloquio tra Fini e Berlusconi è stato pacato e, a tratti, persino cordiale», dice ironico e un po’ sprezzante Italo Bocchino, sulla piazza di Montecitorio alle sette della sera, con gli occhialetti d’acciaio tondi e lo sguardo allusivo di uno che ha appena finito di parlare con il capo ed è sceso appunto a raccontarci che, stavolta, Gianfranco Fini fa sul serio, non è la solita scaramuccia e Silvio Berlusconi è perciò cordialmente invitato a non pensare che la faccenda possa concludersi come in passato.
Bisogna avere una buona memoria. Sono stati sedici anni lunghi e appassionanti, politicamente – spesso – vincenti, umanamente burrascosi. Quasi da subito.
Il 23 novembre del 1993, il Cavaliere si esibisce in un inatteso endorsement per il segretario dell’allora Msi, candidato a sindaco della Capitale. «Se fossi cittadino di Roma, voterei per Fini». Berlusconi parlava da Casalecchio sul Reno, la frase sembra una dichiarazione d’amore. Con il tempo, gli analisti stabiliscono che si tratta invece solo di una grande, strategica mossa diplomatica.
I due non si piacciono. Infatti iniziano a punzecchiarsi già pochi mesi dopo: con il governo appena nato che va subito in difficoltà. I rapporti però precipitano nei giorni di Fiuggi (gennaio 1995), quando la Fiamma si spegne e nasce An. C’è la Poli Bortone, sul palco, che dice: «La guida del Polo, da parte di Fini, è nei fatti». Applausi, grida di evviva. Berlusconi: «Quei fascisti... li ho sdoganati io». E Fini: «Mah... è solo un piazzista».
Sempre così, da allora. Colpi bassi, insulti; poi tregue, patti, accordi per tornare alle urne. Nel 1996, però, alle urne è An a stravincere (15,7%, massimo storico). Fini comincia a pensare in grande, Berlusconi – in difficoltà – inizia a inciuciare con D’Alema. Sono imesi della Bicamerale, che però non avrà futuro. Come, del resto, l’esperimento di Fini: animato da voglie di sorpasso, in vista delle europee del ”99, s’inventa l’Elefantino (arruolando nell’impresa Mario Segni e un plotoncino di radicali).
Poi arrivano anni che scorrono veloci. Con Berlusconi inseguito dalla magistratura, con la legge Cirielli, il Lodo Schifani, con il provvedimento sul falso in bilancio: Fini mugugna, scuote la testa, inizia a piantare i paletti che oggi sono diventati una staccionata alta e appuntita. Ma sono anche anni di polemiche tenute comunque basse da eventi più grandi: l’11 settembre, e poi le guerre in Afghanistan, in Iraq, le grandi manifestazioni per la Pace, e poi ancora Nassiriya, la morte di Quattrocchi, il rapimento delle due Simone.
Gianfranco Fini è intanto divenuto il vice di Berlusconi nell’esecutivo. Mantiene un profilo moderato. Però, come ha scritto su questo giornale Francesco Verderami, nel tempo riterrà «che la lealtà era stata scambiata per subalternità». Quando se ne rende conto, è troppo spesso lontano: impegnato a girare il mondo. Ministro degli Esteri autorevole, con battute al veleno. Tipo questa: «Quelle poche volte che torno in Italia e mi ritrovo Berlusconi in tivù, cambio canale». Il Cavaliere incassa. Ma un pomeriggio, cercato dal centralino della Farnesina, fa rispondere il suo cameriere: «Il Presidente non può venire al telefono, si sta lavando i capelli».
Daniela Santanché li conosce bene entrambi. «Volendo fare un bilancio complessivo del rapporto tra i due, direi che Berlusconi, nei confronti di Fini, è sempre stato assai generoso. Fini, al contrario, ha coltivato spesso l’ingratitudine». La verità è quella che scrive il 29 novembre del 2007 in un editoriale su Panorama, l’allora direttore Maurizio Belpietro: «Berlusconi e Fini non si sono mai amati». Una settimana prima, Fini a «Porta a porta» era stato netto: «Berlusconi con me ha chiuso. Tanto non è eterno e io ho venti anni di meno». Strascichi di quanto accaduto il 18 novembre, pomeriggio del Predellino. Con Berlusconi che in piazza San Babila fonda, di fatto, il Pdl. E con Fini che commenta: «Siamo alle comiche finali».
Fabrizio Roncone, Corriere


BARBARESCHI: LUI SAGGIO, LO SEGUIRO’ NELLA BATTAGLIA
«Se dovrà essere strappo, strappo sia. Ma per raccogliere il 20 per cento dei consensi, non il 5 per cento». Il deputato-attore-regista Luca Barbareschi fa parte del gruppo ristretto che Fini ha riunito ieri nel suo studio.
Lo strappo dal Pdl non comporta rischi?
«Certo. Ma non vanno prese decisioni dettate dalla paura. Ci sono almeno 50 deputati, anche non provenienti da An, pronti a mettersi in un soggetto nuovo».
 lo scenario più probabile?
«Ho fiducia nella saggezza tattica di Fini. Sono pronto a ogni battaglia, ma la rottura con il Pdl sarebbe un errore».
Cosa deve succedere, allora?
«Il Pdl è un partito di plastica, con tre coordinatori che coltivano i loro interessi. Forza Italia doveva pesare per il 70 per cento e An per il 30. Ecco, Berlusconi deve riconoscere il contributo che gli ex di An possono portare».
Trenta per cento nelle nomine-chiave?
«Anche. Noi vogliamo allontanare le mele marce e fare largo alle grandi competenze e alla meritocrazia. Io ho appoggiato Draghi in Europa, e non proviene da An...».
Fini non è riuscito a imporre questo peso del 30 per cento?
«Fini è stato super partes, garante delle regole. Ha fatto battaglie civili di cui sono fiero, come quella per Eluana. Risultato: l’arroganza degli uomini di Forza Italia ha prevalso. E anche una certa ingordigia».
La parola ora è a Berlusconi?
«Do un modesto consiglio a Berlusconi: ha avuto tutto, ora metta da parte gli interessi privati e diventi uno statista, uno stratega per il Paese».
Andrea Garibaldi, Corriere

MATTEOLI: NO GIANFRANCO, IO NEL PDL CI STO BENE
Ministro Matteoli, anche lei ha le valigie pronte? «No, io non vado». Non seguirà Gianfranco Fini? «Non ho nessuna intenzione di aderire a una scissione».
Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti risponde al cellulare alle nove di sera, il tono è (quasi) pacato ma i contenuti sono pesanti. Altero Matteoli non sembra avere nostalgie, niente rimpianti per una storia comune iniziata nel Movimento sociale italiano (Msi). stato per anni uno degli uomini più vicini all’ex leader di Alleanza nazionale, uno dei pochissimi con cui Fini si consultava prima di ogni decisione importante. Ma ora non più. Ora Matteoli si schiera con il Cavaliere, a costo di ritrovarsi contro il presidente della Camera.
Dunque ministro, siamo al divorzio tra Fini e Berlusconi?
«Lei lo ha letto il comunicato di Fini?».
Dice che Berlusconi deve arrivare a fine legislatura.
«Appunto. Fini ha detto che aspetta una risposta dal presidente del Consiglio. Aspettiamo e vediamo se nelle 48 ore arriva una risposta soddisfacente». E se non arriva? «Io auspico che non si giunga alla rottura». Forse ci siamo già. «E allora perché Fini avrebbe fatto quel comunicato?».
Forse è meglio che ce lo spieghi lei...
«Io ho parlato con Fini e posso dirle che non aveva alcun bisogno di convincermi».
Perché è già convinto o perché non la convincerà mai?
«Non farò una scissione, io. Non aderirò ad altri gruppi. Sto bene nel Pdl, ho contribuito a farlo e non sono pentito. Non ho preoccupazioni».
Qualche tempo fa lei ha detto che per Fini spodestare Berlusconi sarebbe «una vittoria di Pirro», un «suicidio politico per tutto il Pdl». Qual è allora l’obiettivo di Fini?
«Non mi piace andare a vedere i pensieri reconditi degli altri. Se quel che è scritto nel comunicato è vero, ci sono i margini perché la cosa possa rientrare».
Perché allora molti parlano di andare al voto anticipato? «Io non ne parlo». E se nascono i gruppi parlamentari di Fini?
«Certo, in quel caso la situazione politica cambia. Lo scenario muta... E allora non è detto che le elezioni anticipate non siano uno sbocco possibile».
Secondo lei, se il presidente della Camera si mette in proprio deve lasciare lo scranno più alto di Montecitorio?
«Secondo me, secondo me... Ma perché mi fa questa domanda?».
Perché al vertice Berlusconi avrebbe detto a Fini che, se fa i gruppi, deve dimettersi dalla presidenza.
«Ma Berlusconi ha smentito!».
Quindi Gianfranco Fini non deve dimettersi?
«Le auguro una buona serata».
Monica Guerzoni, Corriere


’SILVIO, IO NON STO AL TRAINO DI BOSSI”
L´annuncio arriva alla fine del pranzo, dopo un confronto teso durato quasi due ore. «Silvio, visto che il Pdl è un nostro patrimonio comune, ma abbiamo idee diverse su come coltivarlo» osserva Fini senza alzare la voce «non ci vedo nulla di male a farlo fiorire con un gruppo autonomo». Berlusconi resta basito.
Il premier prova a convincere il presidente della Camera che «i problemi si possono risolvere». Ma per Fini le cose sono ormai andate troppo oltre. E lo stesso Berlusconi, in serata, appare ai coordinatori quasi sollevato: «Mi sono tolto un peso. Se ne vada pure. Abbiamo un problema in meno e possiamo correre. Farà la fine di Follini». Inoltre, c´è sempre l´arma atomica del voto anticipato: «Non escludo nulla», minaccia il Cavaliere.
Più tardi, nelle varie riunioni con i suoi fedelissimi, il presidente della Camera prova a svolgere il filo di una delle giornate più difficili della sua vita politica: «Con calma, ho posto a Berlusconi solo questioni politiche, alle quali non mi ha saputo rispondere. O meglio, ha risposto a tutto, dicendo sempre "va tutto bene". Invece basta vedere cosa è successo in Sicilia, dove da un anno e mezzo viene tollerata una situazione che, in qualsiasi altra organizzazione, avrebbe portato a una decisione». Proprio il caso Sicilia, con lo sdoppiamento del Pdl in due tronconi, l´un contro l´altro armati, per Fini è paradigmatico di cosa il Cavaliere pensi dei partiti: «Li considera meno di zero. Io invece li ho sempre considerati con rispetto e il nodo, alla fine, è venuto al pettine». Un esempio che vale anche per gli altri campi: «I problemi vanno affrontati - ha spiegato Fini ai tanti che, in processione, sono andati a trovarlo - non si può nasconderli sotto il tappeto». «Sono settimane che gli dico le stesse cose, in privato, in pubblico e attraverso intermediari. E lui mi ha risposto schivando i problemi. Diceva: questo lo risolviamo. O peggio: ma Fini dove va? Sono solo quattro gatti, sono dei fighetti». Invece il presidente della Camera è sicuro di avere i numeri giusti per essere determinante: «Le forze per fare i gruppi autonomi ci sono. Ampie e sufficienti per tutto. Ci siamo capiti».
La scena ritorna al primo piano di Montecitorio. Berlusconi alza la voce, sbatte due volte i pugni sul tavolo. Ma Fini torna alla carica. Freddo: «Io pongo problemi perché desidero che il governo lavori meglio, che la tua maggioranza sia più forte». In concreto, cosa chiede? Molto ruota intorno al ruolo debordante della Lega, a quella che Fini considera la sudditanza del Pdl rispetto a Bossi. La risposta del Cavaliere, anziché tranquillizzare il presidente della Camera, lo rafforza nella sua determinazione: «Gianfranco, la Lega siamo noi, con Bossi siamo amici, garantisco io per lui». Finito il pranzo, Fini racconta ai suoi di non essere stupito dalla concezione dei rapporti politici di Berlusconi: «Non gliene faccio una colpa, sono categorie politiche che non possiede. come se io parlassi in italiano e lui mi rispondesse in russo». Per farsi capire, si serve di una metafora: «Certe volte la direzione della Dc si riuniva e stilava un chiaro invito rivolto al presidente del Consiglio a fare questo o quello. Anche il premier era democristiano, ma quella presa di posizione serviva ad aiutare il governo». Il Cavaliere lo scruta perplesso scuotendo la testa. Anche la condizione del Pdl viene gettata sul tavolo, insieme alla politica sociale del governo «che non esiste», la politica istituzionale «che deve essere più equilibrata», la politica economica, che «nemmeno tu conosci, perché Tremonti non ne parla con nessuno». «Ma ti rendi conto dello stato del partito al Sud?», chiede Fini. E il premier: «Cosa dici? Al Sud abbiamo vinto!». Fini, di rimando: «Serve un Pdl nazionale che non sia al traino della Lega, che sia attento alla coesione del Sud». L´altra richiesta è quella di azzerare tutti gli organigrammi, per tornare al rispetto di quel 70-30 pattuito all´inizio.
 un dialogo fra sordi. Il presidente della Camera gli imputa anche la scarsa considerazione in cui viene tenuto. Episodio sintomatico quello della riforma della Costituzione: «Ti rendi conto - punta il dito Fini - che durante una cena avete tirato fuori una bozza di Costituzione, l´avete scaraventata sul tavolo del Quirinale e l´avete resa pubblica senza che il presidente della Camera e cofondatore del Pdl ne fosse informato?». Il Cavaliere minimizza: «Quella bozza non ha valore, non è nulla di definitivo. Anche Umberto mi ha detto: quel Calderoli lì esagera, ha fatto di testa sua».
Il pranzo è terminato, Berlusconi prova a stemperare il clima con una barzelletta, ma c´è poco spazio per le risate. Fini sembra deciso a lanciare il suo gruppo «Pdl-Italia», che voterà i provvedimenti del governo «a condizione di contribuire sempre alle decisioni prese: è l´Abc della politica, ma lui non ce l´ha». Insomma, a chi lo vuol seguire il presidente della Camera ripete che non gioca «a far cadere il governo», ma la partita interna sarà molto dura. «Metto in conto - confessa - che Berlusconi scatenerà i cani per provare a sbranarmi, tenterà di ammazzarmi. Già mi aspetto Feltri. Ma prima o poi, per un politico, arriva il momento della verità». Quanto ai colonnelli di An, Fini attende le loro decisioni: «Sono preoccupati. Sta arrivando il momento in cui si accorgeranno che, senza dignità politica, si sta solo al servizio di una persona».
Berlusconi lascia il vertice con una minaccia: «Pensaci bene prima di fare una cosa del genere». Tornato a palazzo Grazioli, il premier si sfoga: «Fini mi aveva promesso che, se si fosse rimesso a fare politica attiva, si sarebbe dimesso dalla carica. Mi aspetto che onori questa promessa». E ancora: «In ogni caso, è liberissimo di fare il suo gruppo. Ma è chiaro che, per statuto, chi fa un gruppo per conto suo non fa più parte del Pdl e non potrà essere ricandidato». Fatti conti con i coordinatori e i capigruppo, il premier ritiene di poter ancora dare le carte. «Al Senato Fini non ha i numeri per fare un gruppo e anche alla Camera, se arriverà a 20-22 deputati, me li riprenderò uno a uno». Ma finirà davvero così?
Francesco Bei, la Repubblica


NAPOLITANO SORPRESO DALLA MINACCIA DI ELEZIONI
ROMA - Al Colle aveva già chiesto scusa, durante un incontro "riparatore" con il presidente Napolitano. Ma ieri Schifani ha fatto il bis, replicando lo stesso identico copione del novembre scorso: evocando elezioni anticipate ha finito ancora una volta per scavalcare il presidente della Repubblica. L´unico al quale la nostra Costituzione assegna la decisione di chiudere eventualmente anzitempo la legislatura, dopo tutte le più attente verifiche. E che certamente non si aspettava, dopo quella convocazione e il chiarimento sul Colle, un replay dell´incidente che lo sorprese durante la sua visita di Stato in Turchia. A destare l´attenzione del Colle anche un´altra circostanza, pure questa una fotocopia della "crisi" dello scorso autunno, quando Schifani impugnò l´arma del voto anticipato sempre contro il "ribelle" Fini: l´una contro l´altra seconda e terza carica dello Stato. Il braccio di ferro politico dentro la maggioranza che tracima, e minaccia di trasformarsi in un scontro istituzionale che coinvolge i massimi vertici del Parlamento. A dispetto di tutti gli appelli e delle preoccupazioni del capo dello Stato.
Che giusto ieri, ricevendo il ministro Scaloja che gli ha mostrato i quattro francobolli per il 150. anniversario della spedizione dei Mille, ha voluto celebrare il valore della coesione del paese. L´unità nazionale, ha sottolineato Napolitano, «ha superato molte prove». E soprattutto ha guidato «come una grande stella polare» la straordinaria trasformazione dell´economia, della società e delle istituzioni in Italia. Il presidente sarà a Quarto in visita il 5 maggio, poi l´11 tappa a Marsala e Calatafimi, «anche se non mi imbarco con i Mille», scherza. Il suo auspicio è che le celebrazioni per i 150 anni «siano momenti di larghissima condivisione, anche popolare», un´occasione di riflessione «sulla nostra storia e di conferma del nostro impegno per l´unità nazionale». Che il capo dello Stato celebrerà pure il 24 aprile a Milano, alla Scala, dove parlerà per l´anniversario della sconfitta del nazi-fascismo. «Non è stata soltanto la giornata della Liberazione ma anche della riunificazione del paese, per venti mesi tagliato in due».
(u. r.), la Repubblica


BERSANI: ”PROBLEMI SERI NASCOSTI DA VOTI DI FIDUCIA”
ROMA - Lo scontro aperto nel centrodestra è frutto di «problemi molti seri», finora coperti dal ricorso continuo alla fiducia. Pier Luigi Bersani legge il faccia a faccia fra Berlusconi e Fini come la dimostrazione che il Pdl non gode di buona salute.
«Sotto queste tensioni ci sono problemi molto seri» spiega il segretario pd . «Il distacco tra le politiche del governo e i problemi economici e sociali e le confuse prospettive di riforma evidentemente non condivise». Secondo Bersani, «la verità è che sui temi di fondo del paese questo è sempre stato un governo senza decisioni. Dopo gli squilli di tromba delle regionali ora si è visto che la destra ha i suoi problemi, prova ne sia che nel Paese è tutto fermo».
«Per il bene del Paese prima ci liberiamo del sistema piduista, che sta portando avanti Berlusconi nel governare non solo il Paese, ma anche nel guidare il Parlamento, meglio è. Mi fa piacere che lo abbia capito anche Fini e mi auguro che la prossima volta lo capiscano anche gli italiani», commenta invece Antonio Di Pietro, leader dell´Idv.
Rosy Bindi, presidente dell´Assemblea del Pd, spiega: «Il successo della Lega ha innescato la crisi della destra con il Pdl percorso da una guerra intestina. Per Berlusconi le regionali sono state una vittoria di Pirro. Il guaio è che il Paese e le istituzioni pagano le conseguenze di chi non ha senso dello Stato e pretende di legare le cariche istituzionali agli equilibri di partito». Un riferimento all´invito di Berlusconi a Fini di lasciare la presidenza della Camera. Quella poltrona, dice Bersani, «non mi pare sia nella disponibilità di Berlusconi: sarebbe meglio che fosse più prudente».
la Repubblica


I FINIANI ORA SOGNANO IL ”PDL- ITALIA”
ROMA - «Coraggio. Abbiamo provato in tutti i modi a tenere unito il Pdl. Adesso comincia una nuova avventura politica. Siate pronti». Il "comandante" Gianfranco Fini parla con tono risoluto alle sue «truppe» riunite per quasi tre ore nelle stanze della Presidenza della Camera. Il dado è stato tratto poche ore prima, nel faccia a faccia con il premier Berlusconi.
Ascoltano tutti in silenzio. Dapprima i soli Urso, Bocchino, Briguglio. Poi si aggiungono altri. Arriva il ministro Ronchi, i sottosegretari Viespoli, Bonfiglio, Menia. E poi Giulia Bongiorno e la direttrice del "Secolo" Flavia Perina. Saranno 23, a fine incontro. Ma fino a sera, raccontano a Montecitorio, la segretaria particolare Rita Marino continua a ricevere telefonate di parlamentari e amministratori locali pronti ad aderire alla nuova creatura che ha già un nome: "Pdl Italia". Alla tregua di 48 ore che i due cofondatori del partito si sono dati al pranzo della rottura, nessuno sembra dare peso. Lunedì Fini chiamerà personalmente, uno per uno, i " suoi" parlamentari: saranno invitati a firmare il modulo per la formazione del nuovo gruppo. Ne occorrono 20 alla Camera e 10 al Senato, ma soprattutto ne bastano a Montecitorio meno di 30 per determinare la maggioranza che al momento è di 341 deputati. Non sarà «convocato», ovvio, chi da tempo ha voltato le spalle al numero due del Pdl. All´incontro non si fa vedere Ignazio La Russa, che poco dopo firmerà la nota con cui i tre coordinatori definiranno «incomprensibile» il comportamento di Fini. Al vertice dei "fedelissimi" non si vedranno i ministri Meloni e Matteoli. I berlusconiani sostengono che la truppa del presidente della Camera non potrà contare che su una trentina di parlamentari. «Danno i numeri, siamo almeno 45-50 deputati e 15-20 senatori» fa di conto uno dei "pretoriani" più vicini alla terza carica dello Stato. Di certo, il gruppone avrà dalla sua il quotidiano "Il Secolo", il think tank "FareFuturo", con lo storico Alessandro Campi e il direttore del webmagazine Filippo Rossi, la fondazione "Alleanza nazionale" presieduta da Donato La Morte. Nascerà a giorni sotto un´altra luce "Generazione Italia". Italia, come il nuovo Pdl.
«Sia chiaro: saremo fedeli al patto con gli elettori - chiarisce Fini ai suoi - Continueremo a sostenere il governo lealmente, ma sui provvedimenti che rientrano nel programma». Quando è trapelata l´indiscrezione sull´aut-aut di Berlusconi al cofondatore, l´invito a dimettersi dopo l´eventuale strappo, dal quartier generale di Fini stava per partire una controffensiva altrettanto dura: «Sarebbe il premier a doversi dimettere, dato che lo è anche grazie ai nostri voti». Poi, almeno questo botta e risposta esplosivo, è rientrato. Mentre le agenzie di stampa rilanciano i nomi dei finiani pronti ad aderire, alcuni iniziano a defilarsi. Berselli, Gramazio, Gamba, Caruso, Ramponi annunciano fedeltà al Pdl. Altri rivendicano il sostegno a Fini: «Inascoltato per troppo tempo, ora ha tratto lealmente le conclusioni» dice Briguglio. Più colorito Barbareschi, a fine riunione: «La verità è che le teste pensanti del partito si sono rotte i co...».
(c.l.), la Repubblica


’SIAMO PRONTI ALLA CONTA NEL PARTITO BOSSI CI STA DRENANDO TUTTI I VOTI”
ROMA - State per salpare verso una nuova avventura politica, onorevole Italo Bocchino? lo strappo annunciato?
«Ci siamo limitati a porre alcune questioni politiche al premier. Attendiamo risposta e invochiamo discontinuità. Diversamente, daremo vita al gruppo del Pdl Italia, comunque in sostegno del governo e parte integrante di questa maggioranza».
Ecco, chiedete discontinuità. Ma su cosa?
«Primo: il Pdl pesa dentro la maggioranza in misura inversamente proporzionale ai voti che ha. L´esatto contrario della Lega. Secondo: abbiamo espresso una politica economico-sociale poco incisiva, soprattutto nel Mezzogiorno, ancora Cenerentola d´Italia benché lì siamo fortissimi. Terzo: al Nord la coalizione è nettamente a trazione leghista, con conseguente drenaggio di voti a beneficio del Carroccio. Detto ciò, è evidente che i problemi sono riconducibili molto al Pdl in quanto partito, per come si è organizzato e come si è mosso in questo anno».
La famosa deriva «monarchica» di Berlusconi, dietro la vostra scelta?
«Più che di deriva monarchica, parliamo di un partito in cui non si è mai riunita la direzione nazionale, in cui l´ufficio di presidenza viene convocato poco e spesso in modo informale, alla presenza di persone che non ne fanno parte. Un partito vero deve fare funzionare i suoi organismi, deve discutere al proprio interno, deve affrontare i problemi, sciogliere i nodi».
Il presidente del Senato Schifani sostiene che quando una maggioranza si divide, non resta che il voto. State scatenando una crisi?
«Ma quale crisi? Davvero irrituale questa dichiarazione della seconda carica dello Stato, proprio per il ruolo che ricopre. Gli ricordiamo che la Costituzione sancisce che in Italia si sciolgono le Camere su iniziativa del capo dello Stato e quando al governo viene a mancare la maggioranza. Ma, come ha ripetuto ieri Fini, noi mai faremo mancare un voto alla maggioranza».
Mai su nulla? Allora che senso il nuovo gruppo autonomo?
«Alt. Mai, su tutte le questioni che rientrano nel programma di governo».
Giustizia? Sosterrete la riforma berlusconiana? E le intercettazioni?
«Verificheremo quel che rientra nei programmi e quel che non vi rientra. In questo secondo caso, valuteremo caso per caso».
Qualche altro esempio?
«Nel programma c´è l´abolizione delle province? Bene. Abbiamo un impegno da rispettare con i nostri elettori, anche se la Lega nel frattempo ha cambiato idea. Così su altro».
Quanto ha pesato il logoramento quotidiano della stampa berlusconiana contro Fini?
«Il cecchinaggio quotidiano non ha alcun valore in sé, nella misura in cui i giornali sono liberi di scrivere quel che vogliono. Quello a cui abbiamo dato peso è stata la mancanza di rispetto, da parte dei giornali pagati dal premier, nei confronti del cofondatore del Pdl. Francamente inaccettabile».
Onorevole Bocchino, ma quanti siete? A sentire i berlusconiani davvero poche decine.
«Falso problema, quello dei numeri. Tipico di chi non vuole ragionare di politica. Se pure fosse il solo, il problema politico ci sarebbe tutto, ugualmente. Siamo il doppio rispetto a quanto sostengono. E la conta, se occorre, si farà».
Carmelo Lopapa, la Repubblica