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 2010  aprile 20 Martedì calendario

GRAZIE MAURIZIO, CI RIVEDREMO!"

di Benedetto Mosca per Gente, 20 aprile 2010, pag. 44

Gli articoli scritti per ricordare chi muore sono, in genere, tristi. Questo non fa eccezione, ma io (Benedetto, primo dei tre fratelli del famoso giornalista sportivo Maurizio Mosca) consiglio di leggerlo anche a chi ha paura di immalinconirsi. Perché è anche un po’ allegro, specchio com’è di una
persona unica e dolce, della quale Aldo Grasso ha scritto sul Corriere della Sera: "Tutti i bambini crescono, tranne uno: Maurizio. Era il Peter Pan della Tv italiana... E il suo pensiero, in mezzo alle schegge impazzite che vagolano nell’etere, era fra i più smaglianti". Maurizio come Peter Pan, l’eterno fanciullo capace di passare indenne fra le trappole della vita: dal 24 giugno 1940 al 3 aprile 2010, quando la sua è finita dopo una lunga malattia al Policlinico San Matteo di Pavia.
La vita è rotonda come un pallone. Alcuni dei ricordi che leggerete sono miei, ma la maggior parte appartengono a Maurizio. Sono le "confessioni indiscrete" che lui ha lasciato in una serie di appunti scoppiettanti intitolati La vita è rotonda come un pallone di calcio, che si aprono con queste parole: "Tutto, prima o poi, si chiude come un cerchio. Un amore, un’amicizia, un conto in so-speso, la vita. Come il tondo di un pallone".
Il suo cerchio si era aperto in tempo di guerra. Maurizio era nato a Roma per caso, perché nostro padre Giovanni aveva lasciato la Capitale nel 1936 con la moglie Teresa (quella "Signora Teresa" che ha dato il titolo al suo libro forse più bello) per fondare a Milano il Bertoldo e qualche anno più tardi il Candido con Giovanni Guareschi. Milano fu bombardata e nostro padre perse il lavoro. Noi ci trovammo "sfollati", come allora si diceva, a Pallanza sul Lago Maggiore. Ha ricordato Maurizio: "Quando papa fu arrestato dai militari della Repubblica di Salò e messo in lista per essere deportato in Germania, io avevo cinque anni. Poco più di tre ne aveva Paolo, che molti conoscono per i bei libri che ha scritto e che per sempre è stato così vicino al mio cuore".
Quando gli dissero: «Mosca, scrivere non è il vostro mestiere».
Nostro padre si salvò grazie a un certo capitano Martinelli, entusiasta lettore dei suoi Ricordi di scuola, che rischiò la vita depennandolo dalla lista dei destinati al lager. Tornò al lavoro con successo "e quando mi fui tolto il macigno della maturità liceale", Maurizio torna a ricordare, "mi presentò al direttore de La Notte, il quotidiano del pomeriggio che allora usciva a Milano. Nino Nutrizio, già direttore tecnico dell’Inter e della Nazionale, era un grande giornalista, ma intransigente e pignolo. Dava del voi a tutti. Il primo articolo che scrissi per lui era su un allenamento del Milan all’Arena di Milano. Nutrizio mi chiamò e, senza guardarmi in faccia, mi disse: «Scrivere non è il vostro mestiere. Fate come volete, ma raramente ho visto un simile scempio»". Erano le sei del mattino quando Maurizio arrivò a casa e disse a nostro padre che avrebbe lasciato La Notte. «Studierò Legge», annunciò convinto di aver chiuso con il giornalismo. Invece... "Da casa mia a La Notte c’erano 500 metri di distanza. Mio padre me li fece fare a calci nel sedere; e meno male che era ancora buio e non ci videro in molti. «Se ti arrendi alla prima difficoltà», mi diceva fra un calcione e l’altro, «che succederà quando avrai problemi più grandi? La vita è piena di ostacoli, impegnati, cerca il riscatto»".
"Quella volta mi salvò Enzo Tortora".
Maurizio si riscattò. Nel 1963, giornalista sportivo già affermato, entrava alla Gazzetta delio Sport diretta prima da Gualtiero Zanetti e poi da Gino Palumbo. "Un sogno", diceva. "Erano gli anni di Duilio Loi. Sandro Lopopolo, Sandro Mazzinghi. E stava per nascere l’astro Benvenuti che nel 1967 avrei seguito in America (sul transatlantico Raffaello, perché detesto l’aereo) per la sfida mondiale con Griffith". Per diversi anni la boxe fu il pane quotidiano di Maurizio; "poi però", ha scritto, "me la sentii stretta addosso, perché intuivo che la sua grande stagione stava finendo". Dopo la boxe, il calcio. Vent’anni in Gazzetta e poi in televisione, dove il "folletto" Maurizio avrebbe lasciato il segno: la fantasia in onda. "La mia prima volta in Tv fu con Enzo Tortora alla Domenica sportiva. Avrei dovuto commentare la sconfitta di Lopopolo in Giappone, ma l’emozione mise anche me k.o. Bocca secca, idee a zero... Tortora capì al volo e diede la parola all’ospite che avevo accanto. Quella paura mi è restata per sempre, ma ho imparato a superarla".
L’avventura di Supergol.
Il lancio definitivo di Maurizio in Tv avvenne nel 1979 a Telealtomilanese, una emittente della Rizzoli. Poi ci fu il Processo di Aldo Biscardi e, soprattutto, l’addio alla Gazzetta per fondare il mensile Supergol. Un boom: 140mila copie con l’editore Peruzzo. Quindi nel 1989 Ettore Rognoni, il direttore dei servizi sportivi della Fininvest, chiamò Maurizio per affidargli gran parte delle trasmissioni (compresa quella famosa, ricordate?, del pendolino che indicava i risultati delle partite) che lo hanno fatto amare da tanta gente.
Al telefono con l’Avvocato e con il Cavaliere.
Ha scritto Maurizio nelle "confessioni indiscrete" dettate a Luca Serafini: "Primi anni Settanta. Alla Gazzetta curavo una rubrica intitolata La telefonata. Un giorno, alla vigilia dì Juventus-Milan, chiamai l’avvocato Agnelli. Era in riunione a Roma ma prese la telefonata. Parlammo di molte cose e di molte persone, cominciando da Gianni Rivera, il capitano del Milan, del quale Agnelli disse: «II suo errore è stato quello di non venire da noi». Non ero d’accordo e gli spiegai perché. L’Avvocato si accalorò: «Ma senta, Mosca, noi abbiamo avuto Sivori, si figuri se non avremmo potuto avere Rivera»".
La famiglia Agnelli aveva da poco rilevato la Gazzetta, e a un certo punto l’Avvocato lanciò un’idea: «Mi dica, Mosca: e se la facessimo bianca?». Maurizio inorridì: «Ma per carità, Avvocato, è una pazzia! La storia della Gazzetta è rosa, come la maglia del Giro d’Italia.
Svetta in edicola, è anche per questo che ha tanti affezionati lettori. Non porti avanti la sua idea, mi dia retta». Non se ne fece niente».
Con Berlusconi, invece, Maurizio parlò la prima volta una notte alle 4.30, nei primi anni 80, durante una diretta su Canale 5. Era a Milano 2, in uno studio un po’ squallido, vuoto, con una parete bianca e uno sgabello (il suo) in attesa di commentare un incontro di boxe di cui Rino Tommasi faceva la cronaca da New York. Alla prima pausa pubblicitaria, Maurizio fu chiamato al telefono in regia. «Buonasera, Mosca, sono Berlusconi». «Buonasera. Mi dica!». «Sto seguendo il programma, ma come si fa a lavorare in uno studio così povero? Si faccia mettere alle spalle una fotografia con un paio di guantoni, un ring, qualcosa». Da quel giorno lontano, Berlusconi e suo figlio Pier Silvio hanno seguito Maurizio con sincera (e ricambiata) partecipazione. Sempre, fino all’ultima affettuosa telefonata del Cavaliere durante il ricovero di mio fratello al San Matteo di Pavia.
Il sorriso della "Signora Teresa".
I quarant’anni d’amicizia di Maurizio con la famiglia Moratti, limpida storia di reciproca stima, meriterebbero un capitolo a parte, cosi come andrebbero ricordati i simpatici rapporti con i Carrara e i Rizzoli. Ma mentre tutto ciò avveniva, mentre l’entusiasmo popolare travolgeva mio fratello un’altra storia si dipanava parallela, segreta e dolcissima. Una storia durata 15 anni, quanti Maurizio ne ha dedicati a nostra madre gravemente ammalata, alla "Signora Teresa" divenuta, dopo la scomparsa di nostro padre, soltanto Teresa. Il famoso giornalista sportivo, il "re del calcio in Tv", pur di starle vicino rinunciò a tutto: alle vacanze, ai viaggi, perfino al matrimonio. E per ripagarlo bastava il fugace sorriso che ogni tanto, mentre lui le parlava come a una bambina, la "Signora Teresa" magicamente ritrovava.
Chi vuole, non legga queste righe.
Adesso che il cerchio si è chiuso come il tondo di un pallone, chi vuole può saltare quest’ultimo capitolo, che è il più triste. Il 26 ottobre 1983, quando nostro padre Giovanni morì, Maurizio gridò: «Grazie papa, ci rivedremo». Poi ognuno gli mise in tasca qualcosa: un bigliettino con una frase, una medaglia, un’immaginetta. Anche Maurizio è andato via con tanti foglietti nelle tasche: parole di addio della gente comune (quella per cui in realtà lavorava) che gli ha reso l’ultimo omaggio. E poi aveva accanto anche una maglia con il numero 10, una sciarpa, il portachiavi di una squadra di calcio e un pezzetto di carta con su scritto: "Vai nella luce". Grazie Maurizio, ci rivedremo!