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 2010  aprile 14 Mercoledì calendario

PULITZER.COM

Imparò dai muli a trattare con i giornalisti, un eccellente apprendistato. Quando ottenne a vent´anni il suo primo lavoro da immigrato ebreo ungherese, come stalliere di queste renitenti e temperamentali creature nel Missouri, Joseph Pulitzer, nato Jòszef Politzer in Ungheria, aveva in tasca 75 centesimi incassati vendendo un fazzoletto di seta della madre. Ma nella mente, il culto di una professione che ancora 150 anni dopo esprime, nel premio intitolato al suo nome, il massimo delle aspirazioni e della felicità che giornalismo, letteratura e teatro americani possano coltivare. Per vincere un Pulitzer, disse Saul Bellow che vi aggiunse anche un Nobel per buona misura, «uno scrittore sarebbe pronto a uccidere la mamma, se già non la avesse uccisa prima per ottenere di essere pubblicato».
Forse il dettaglio più rivelatore della mistica ineguagliata di questo riconoscimento che dal 1917 incorona la grandezza - o gli errori - della professione giornalistica in tutte le proprie espressioni e della letteratura, è la pochezza della borsa in danaro assegnata al vincitore. Appena 10 mila dollari, un pourboire, una mancetta rispetto al milione e mezzo di un Nobel, il solo premio che possa vantare un´autorità superiore rispetto al Pulitzer. Non c´è giornalista americano, e soltanto americano perché agli Stati Uniti è riservato, che non sogni un giorno di conquistarlo, come un dilettante di calcio sognerebbe da un campetto polveroso di poter innalzare la Coppa del Mondo.
La persona scelta dalla giuria del Pulitzer Prize, composta da 18 membri, quasi tutti giornalisti che cordialmente si detestano e si accapigliano cercando di tirare l´aureola per la propria testata o i propri amici, sotto gli auspici della Scuola di Giornalismo della Columbia University, riceve l´equivalente prosaico di una santificazione. Non vincerlo, pur essendo fra i 2.500 che sottopongono le candidature, è più di una sconfitta, è il riconoscimento incontestabile della superiorità professionale del proprio concorrente, l´attestato della propria insufficienza. La cinica a celebre battuta secondo la quale i premi giornalistici sono come le emorroidi e prima o poi capitano a tutti, popolare nelle redazioni, non si applica al Pulitzer.
Vincerlo produce, come testimoniò uno dei vincitori, David Remnick che non lo conseguì come corrispondente del Washington Post da Mosca, ma dall´abisso della delusione salì all´empireo dell´esaltazione quando gli fu assegnato come autore della Tomba di Lenin: gli ultimi giorni dell´Impero Sovietico, qualcosa di paragonabile a una resurrezione. Nell´effimero tormentoso del giornalismo, dell´arte drammatica, della fotografia, il Pulitzer è per sempre. Non sono più giornalisti, commentatori, blogghisti o drammaturghi. Sono Pulitzer.
Non che il creatore, l´ex volontario nella Guerra Civile americana ad appena 18 anni nei reggimenti di New York per ottenere la cittadinanza, il guardiano di muli, il cameriere di birreria a St. Louis dove si faceva notare soprattutto per i boccali che maldestramente rovesciava in grembo agli intellettuali e ai giornalisti che spiava, fosse, o sia mai stato, un luminare della professione che avrebbe poi illuminato con il proprio nome. Anche se una delle sua molte biografie lo definisce «un gigante del giornalismo», la sua grandezza si è espressa, più che negli scritti, nei reportage, nei commenti, nell´avere intuito che la democrazia americana aveva, come tutte, una disperata necessità di un´informazione che passasse dal mestiere alla professione. Che completasse, con una preparazione appunto professionale e strappata all´improvvisazione artigianale dello "yellow journalism" del giornalismo da vuoto sensazionalismo fazioso alla maniera di Hearst, il monito di Thomas Jefferson, secondo il quale «è meglio una nazione senza governo che una nazione senza libero giornalismo».
«Una stampa capace, disinteressata, socialmente sensibile, intelligente e ben preparata a capire il giusto e a praticarlo può conservare quell´etica pubblica senza la quale un governo è una finzione e una presa in giro», spiegò Pulitzer. Non un grazioso corollario, ma un cardine della libertà e della democrazia.
La sue fortune di professionista dell´informazione cominciarono dal gradino più umile del mestiere, da un quotidiano in tedesco pubblicato a St. Louis, in Missouri, dove la comunità di immigrati dalla Germania era specialmente folta: parlava il tedesco assai meglio dell´inglese e conservò fino alla morte nel 1911 l´accento teutonico. Nella stessa città, fondò il giornale che ancora vi si pubblica, il St. Louis Dispatch, muovendo poi a New York, per acquistare uno dei quotidiani della grande città, il World, che fece la sua fortuna, anche grazie alla pubblicazione di fumetti, il primo a farlo. Pulitzer, mentre predicava il ruolo etico di una stampa libera, preparata e alta («i giornale che si abbassano per raggiungere più lettori, abbassano insieme i propri lettori») conosceva l´imperativo delle vendite e del successo commerciale. I due milioni di dollari che lasciò al King´s College di New York, ribattezzato Columbia dopo la rivoluzione anti inglese, formarono la prima scuola di giornalismo, insieme con quella dell´Università del Missouri sempre fondata da lui, e l´ombrello sotto il quale il premio viene assegnato.
E se, nei primi decenni, il riconoscimento che vide scrittori come Hemingway, autori come O´Neil, Faulkner, Updike e Tennessee Williams, poeti come Frost, era importante e aggiunse anche John F. Kennedy ai premiati, è dal dopoguerra che la competizione fra grandi testate si è fatta feroce, trasformandosi in una gara che ha qualche risvolto pubblicitario, ma soprattutto personale e di bandiera. New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, Wall Street Journal, le corazzate del giornalismo che oggi imbarcano acqua, gridano il proprio successo spesso in prima pagina, come il risultato di una finale del campionato, 5 a 4 per noi, vittoria. Neppure le gaffe commesse dalla augusta giuria assegnando a volte il premio ad abili impostori hanno mai scosso la mistica del Pulitzer. Janet Cook, l´oscura reporter del Washington Post che lo vinse nel 1981 per la stupenda cronaca della vita di un bambino tossico, dovette restituirlo, quando si scoprì, per la gioia acre dei concorrenti e colleghi, che quel bambino era "fiction". Jack Kelley di Usa Today dovette ammettere nel 2002 che buona parte delle sue rivelazioni sulle centrali del terrorismo erano «false». Ma autentici, e sconvolgenti, furono gli articoli di Dana Priest sul Washington Post nel 2006, quando lei alzò il sudario sulla tortura spacciata come «tecnica avanzata di interrogatorio». Non senza qualche autoironia, i giurati assegnarono il premio per la saggistica a Joseph Hallinan, ex reporter del Wall Street Journal e autore del libro Perché commettiamo errori.
La fede del giovanotto ungherese destinato a divenire il simbolo più alto del "Quarto Potere", non sarebbe stata scossa da errori e da crisi, che da uomo del mestiere, reporter nato, conosceva. E sottolineava la parola "reporter" che lui, pur divenuto direttore ed editore di due quotidiani amava, come tutti coloro che abbiano cominciato dalla strada. «Amo i reporter perché loro sono la speranza del giornalismo. Sono semmai i direttori la delusione». Quei direttori che oggi si azzuffano per strapparsi l´un l´altro l´aureola lasciata dal guardiano dei muli.