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 2010  aprile 14 Mercoledì calendario

E IL GRANDE ACCUSATORE SEMBRA L’UNICO IMPUTATO

«Piaccia o non piaccia», questo è il giorno dei cattivi, o presunti tali. La madre di tutte le udienze, copyright Luciano Moggi, si apre con un proclama che riassume le frustrazioni degli ultimi 4 anni, che i membri della cupola di Calciopoli hanno vissuto ingoiando fiele. «Dalla parte del torto sentendo di avere ragione», come chiosa Pierluigi Pairetto, ex designatore arbitrale, attuale imputato.
Allora, se deve essere il giorno della rivalsa, che sia. «Piaccia o non piaccia» è il ritornello beffardo usato in aula dall’avvocato Maurilio Prioreschi, uno dei legali dell’ex direttore generale della Juventus. Fa il verso a una dichiarazione ormai celebre del pubblico ministero Giuseppe Narducci che il 26 ottobre 2008 si avventurò in un improvvido «Piaccia o non piaccia agli imputati non ci sono mai telefonate tra Bergamo o Pairetto con il signor Moratti». Il legale napoletano premette il motto ad ogni frase, scandita dalle grida di pubblico e imputati, in un’aula stracolma e caotica. Le telefonate ci sono, tutti parlavano con tutti, e via così, in un crescendo emotivo interrotto proprio da Moggi, che con il suo ingresso ritardato in aula rovina involontariamente il climax da curva Sud.
Visto che all’appello non manca nessuno, entri dunque la vittima designata. Il colonnello Attilio Auricchio si siede sul banco dei testimoni. Di blu vestito, la faccia smunta, le gambe in continuo movimento sotto lo scranno. Cinque anni fa il maggiore ex comandante del Reparto operativo di Roma era un eroe, l’investigatore che ha scovato il marcio del calcio italiano. Sua la firma sotto ogni rapporto, sotto ogni intercettazione. Era quasi il coronamento di una bella carriera, per un ufficiale cresciuto nella Capitale, fama di professionista austero, malato di informatica.
Con la sua aria spaesata, Auricchio rappresenta oggi il completo capovolgimento di ruoli avvenuto in questo processo. Il grande accusatore sembra l’unico imputato presente in aula, dai banchi gli imputati veri si sganasciano dalle risate ogni volta che si contraddice, e succede spesso. E il pubblico ministero diventa un avvocato difensore che «cura» il suo assistito con sguardi tranquillizzanti e gesti della mano. Il controesame è una mattanza. Auricchio è in oggettiva difficoltà. L’avvocato Paolo Trofino lo incalza sui suoi rapporti con Franco Baldini, grande accusatore di Moggi, su interrogatori durati anche 20 ore che hanno poi prodotto verbali di sole cinque pagine, sull’interpretazione data dagli investigatori alla cena di Moggi e Giraudo nella casa livornese del designatore Paolo Bergamo. Le risposte sono incerte. A ogni parola del carabiniere, Moggi sorride, Pairetto commenta a voce alta, Bergamo litiga con Narducci, suo vicino di banco.
Sull’onda della scena madre, ovvero l’ostensione dell’intercettazione farlocca di Giacinto Facchetti, si arriva al cuore dell’intera vicenda. Trofino urla: «Vuole dire qual era il criterio? In base a cosa decideva la rilevanza penale delle intercettazioni? Perché non ha trascritto quelle di Facchetti e di molti altri? Se l’avesse fatto, il pm non si sarebbe mai spinto a quelle dichiarazioni». L’invettiva rivela il cuore della strategia difensiva. Separare il «reprobo» Auricchio dai magistrati con i quali ha lavorato, isolarlo, renderlo ancora più debole di quanto già non appaia per poter poi disegnare ombre alle sue spalle. « importante capire il ruolo che hanno avuto alcuni grandi suggeritori in queste indagini e in questo processo». Infine eccoci, il Grande complotto è servito. E l’aula piena di gente venuta a riascoltare una tesi vecchia di quattro anni dimostra che, piaccia o non piaccia, Luciano Moggi ha già vinto.
Marco Imarisio