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 2010  marzo 08 Lunedì calendario

CHE BELLA LA VITA A 70 ANNI

Ho letto tempo fa, riportata dai giornali, l’intervista rilasciata al «Times» da Martin Amis che propone un’eutanasia di massa come rimedio per equilibrare la situazione demografica ed economica che si sta determinando in molti Paesi. «Tra dieci o quindici anni ci sarà una specie di guerra civile tra i vecchi e i giovani – dice ”. Dunque dovrebbe esserci una cabina a ogni angolo di strada, dove se hai l’età giusta puoi prenderti un Martini e la pillola della buona morte».
L’età giusta per il suicidio generale sarebbe settant’anni. Io che ne ho ottantotto ho dunque già vissuto diciotto anni abusivi, secondo lui. La proposta di Amis credo abbia origine, più che da un esibizionismo autopromozionale, dal pragmatico e very english «senso comune» portato alle sue estreme conseguenze. Come quello di Jonathan Swift che nel 1729 avanzò la sua «Modesta proposta» di cucinare i bambini e darli come cibo in tempo di carestia.
Data la situazione, mi chiedo se sarebbe auspicabile che in Italia tutte le persone al di sopra dei settant’anni decidessero di passare a miglior vita. Dopo i sessantacinque godrebbero di cinque anni di pensione a carico dello Stato – ma non di più’ e poi, seguendo il suggerimento di Martin Amis, un bel cocktail con stricnina risolverebbe il caso, addormentandoli per sempre in una morte indolore e istantanea. Col vantaggio di pareggiare il bilancio dei conti pubblici e di far largo ai giovani, perché ogni anno in più dei settanta, vissuto da un anziano, sarebbe un anno sottratto al futuro di un giovane. Dopotutto, settant’anni sono una bella porzione di vita, e potrebbero bastare, secondo Martin Amis.
L’eliminazione dei vecchi era una consuetudine e un rito presso alcune tribù dove il problema di procurarsi il cibo per tutti era drammatico e assillante. Raggiunto un certo numero di anni, il vecchio veniva lapidato e ogni membro della tribù doveva gettare la sua pietra, perché quella che comunque veniva sentita come una colpa fosse da tutti ugualmente condivisa. Tornando al cocktail proposto da Martin Amis, ci sarebbe secondo lui anche il vantaggio di evitare una morte più dolorosa, che purtroppo può capitare, e gli altri inconvenienti riservati agli ultrasettantenni quando per loro comincia il tempo in cui «la morte si sconta vivendo», e quando ogni giorno si accorgono di morire un po’ o perché sono messi da parte e dimenticati, o perché vedono che il mondo cambia e va per conto suo in una direzione che non è più la loro. Quando cambiano le canzoni, e cambiano i gusti, le abitudini, le parole, i punti di riferimento, e cambia la storia. Quando a ognuno capita di vedere morire gli amici intorno, e le persone care, e i personaggi che nel suo mondo furono famosi, quelli in cui si riconosceva, che segnavano un’epoca – un attore, un regista, uno scrittore – e li vede cadere a uno a uno come i soldati di una trincea troppo battuta dal fuoco nemico, e vede che se ne vanno e subito vengono dimenticati...
Ora basta! mi dice una voce irritata. Oggi, lo sai bene, un settantenne è come un cinquantenne di una volta, anche se non può più dirsi giovane! La voce mi riscuote dalla depressione che la lettura dell’intervista di Martin Amis mi ha procurato. Faccio un esame del tempo che ho vissuto dai miei settant’anni ai miei ottantotto, e tutto sommato non mi lamento. Questi diciotto anni sono stati per me un dono del cielo, importanti anche per la mia formazione, perché ho imparato e visto e sentito cose che non immaginavo.
Caro Martin Amis, bevilo tu, se così ti piace, il tuo cocktail mortifero. Se lo avessi bevuto io non avrei scritto tre o quattro libri che a scriverli mi hanno dato qualche soddisfazione, non sarei stato tante volte felice, di una felicità diversa e più pacata anche quando molte ombre l’attraversavano, non avrei conosciuto altri Paesi, non avrei nuotato nei mari tropicali e visto le meraviglie di una barriera corallina, e così via.
Sono tante le cose che ho fatte e mi sono capitate dopo i settanta, e se vado più in là, molto più in là dei settanta, anche le abitudini arrivate in questo mio ultimo tempo hanno dato un andamento piacevole alle mie giornate. Svegliarsi al mattino senza l’obbligo dell’orario d’ufficio o di un lavoro mi ha dato tante volte un senso di inaspettata libertà. Uscire a fare due passi col mio cane Guappo, andare a comprare il giornale, leggerlo in poltrona come un rito e un legame con le cose che accadono, vedere ogni tanto un amico, sfogliare un libro, guardare un film e perfino la televisione (col gatto accucciato in grembo e il cane ai tuoi piedi), questo tipo di abitudine può essere come una ninna nanna che ti aiuta ad addormentarti nel sonno finale.
Fuori c’è il mondo con tutti i suoi orrori, è vero e non lo ignoro, mai potrei ignorarlo. Non mi va di chiudermi nell’egoismo dei vecchi e conosco la «distrazione percipiente», ne ho già parlato. Ma l’età che ho raggiunto mi impedisce ogni azione diretta, mi esclude da ogni chiamata alle armi, e l’unica battaglia che mi consente è quella che faccio con le parole che vado scrivendo.
Raffaele La Capria