Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 08 Lunedì calendario

2 articoli - L’AVANZATA DI SUSHI E RISTORANTI ETNICI - Fosse solo una moda, molti l’avrebbero abbandonata al primo involtino primavera indigesto o dopo aver scherzato col wasabi sul tonno crudo

2 articoli - L’AVANZATA DI SUSHI E RISTORANTI ETNICI - Fosse solo una moda, molti l’avrebbero abbandonata al primo involtino primavera indigesto o dopo aver scherzato col wasabi sul tonno crudo. Invece se oggi il sushi è considerato un’alternativa alla pizza e i ristoranti gestiti da titolare straniero sono aumentati del 72 per cento in dieci anni, qualcosa è cambiato. Secondo gli ultimi dati della Camera di commercio di Milano, sono 9252 le imprese individuali con titolare straniero che operano nel settore oggi, più della metà specializzate in specialità etniche. Quello della ristorazione è un mondo con barriere d’entrata non insormontabili. Basta un po’ di spirito imprenditoriale per iniziare, molta passione e fatica per resistere sul ring del mercato. Questo spiega il «calo di vocazione» degli italiani degli ultimi anni, sempre meno disposti a lavorare la domenica e a contare i giorni di ferie sulle dita di una mano a fine mese. così che molti stranieri in Italia hanno iniziato. Su 1,6 milioni di lavoratori stranieri che l’ultima indagine Fipe/Eurisko ha rilevato in Italia, almeno il 10 per cento è occupato nel settore del pubblico esercizio. Da lavapiatti, garzone o interno di cucina, inizia una scalata che porta molti di questi a diventare cuochi con la prospettiva di comprarsi presto il ristorante. «Serve intraprendenza e voglia di lavorare, ma resta decisamente più facile che aprire un concessionario d’auto», spiega Lino Stoppani di Peck, presidente del Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi. Storia emblematica è quella di Mbodji Abdoujaye, ragazzo senegalese che sul finire degli Anni 80 fu strappato dai marciapiedi e messo dietro ai fornelli di Paskowski, locale simbolo di Firenze, per un programma di inserimento degli stranieri voluto dalla giunta fiorentina e dai ristoratori della città. Abdoujaye venne assunto da Aldo Cursano, ex direttore del ristorante. Prima aiuto cuoco, poi cameriere. Ventidue anni dopo è caposala e, insieme alla moglie (italiana), ha aperto a Firenze un altro risto-bar afroitaliano. Quella dei ristoranti etnici non è più una moda. «Se lo fosse, la gente ci andrebbe per curiosità una volta sola», aggiunge Stoppani. Dietro c’è un mondo imprenditoriale forte, capace di cadere in piedi sotto i colpi della crisi economica che ha tartassato il settore. «Il costo dei ristoranti italiani è decollato col passaggio all’euro, i ristoranti etnici lo hanno contenuto uscendone rafforzati», spiega Luigi Sun, cinese da tempo trapiantato in Italia che oggi gestisce la distribuzione per i ristoranti giapponesi ed è socio di Zen, a Milano e Roma. «Con la crisi economica molti ristoratori italiani hanno venduto accontentandosi di meno soldi: questo ha favorito l’ingresso di famiglie etniche allargate che hanno sfruttato la loro abitudine a trasformarsi in azienda». Data la crisi di settore, l’esplosione del comparto etnico è ossigeno puro per l’intero tessuto economico. Ci sono poi gli etnici di qualità, quelli promossi dai gourmet per il livello di cucina. Come il cinese Green T. a due passi dal Pantheon a Roma, il giapponese Kiki a Torino o l’indiano India nel centro di Bologna. In molti casi sono gli stessi ristoratori italiani a ispirarsi alle loro tendenze più apprezzate. I numeri dicono che tre esercizi stranieri su quattro in Italia sono cinesi, ma è ancora Luigi Sun a spiegare come leggere quel dato. «Il 90 per cento dei ristoranti giapponesi in Italia è inmano a cinesi», racconta. «Accusato il colpo d’immagine subito per la psicosi da Aviaria e Sars, i cinesi hanno virato su una cucina fusion, purpurrì di generi, che unisce piatti di origine cinese, thai, ma soprattutto giapponese. Il problema così diventa la carenza di "sushi-men" specializzati: non è difficile recuperare la materia prima, ma un buon grado di professionalità», conclude Sun. Fusion è oggi la parola chiave. La maggior parte dei ristoranti etnici sono una somma di cosa funziona o non funziona più sul mercato. Il churrasco alla brasiliana (carne allo spiedo) oggi lo fanno un po’ tutti, la cucina indiana di moda a inizio Duemila s’è un po’ fermata, quella thai sdoganata ancor prima non ha il successo che riscuote in altri Paesi? Meglio mettere tutto insieme. L’ultima formula, di matrice cinese è la Wok: costo fisso, scelta di salse e contorni e il cuoco che cucina su misura un misto di paste, sushi e pietanze al vapore, mentre un churrasco gira fra i tavoli. Per contenere i prezzi sono nati i sushi-bar a buffet. Così la cucina giapponese s’è rilanciata in tutta Italia e non più solo a Milano, una sorta di «casello» per valutare l’appeal della cucina straniera in Italia: la Camera di commercio ha stimato che imilanesi spendono circa 80 milioni di euro all’anno per mangiare etnico. Così questi ristoranti si diffondono (e funzionano) anche nelle città più piccole, anche per la loro capacità di aprire (e crescere) con occhio proporzionato al portafoglio. A Firenze, Kome, aperto da Aldo Cursano, presidente Fipe in Toscana, con un socio giapponese, è un locale pensato a tre facce (barbecue restaurant e kaiten sushi) per soddisfare tasche diverse. Con il grosso traino della cucina cino-giapponese, ogni città tende a specializzarsi in una cucina etnica, seguendo i flussi della sua immigrazione. E così cinesi, ma anche egiziani si stabiliscono aMilano, Torino e Venezia; ecuadoregni a Genova, boliviani a Bergamo, tunisini a Palermo, iraniani a Firenze, bengalesi a Roma, pachistani a Bologna, albanesi a Lecce. La sfida più difficile per questi ristoranti resta adattarsi a standard qualitativi che nei Paesi d’origine sarebbero impensabili. Un anno fa l’Asl di Milano insieme alle Associazioni di categoria ha svolto un’indagine a tappeto: uno su tre dei locali a gestore straniero è risultato non a norma. «Solo il 5% dei locali era però in condizioni da imporne la chiusura: nella maggior parte dei casi si trattava di infrazioni facilmente correggibili», spiega Piero Frazzi, direttore del dipartimento di Veterinaria dell’Asl milanese. Questo significa che al di là di qualche luogo comune, cucine sporche e cibi scaduti sono sempre più rari. «Sono pochi i recidivi’ aggiunge Frazzi ”. La difficoltà è correggere una mentalità secondo cui chi paga una sanzione può mantenere certe usanze». Questa indagine ha dato via a un progetto di tutoraggio, ora seguito anche da altre città che prevede la formazione di gestori stranieri di bar e ristoranti, in modo da favorire la conoscenza delle norme italiane in materia. Stefano Landi DAL PRIMO INVOLTINO ALLA «FUSION» NIPPO-BRASILIANA. IL SALTO ALL’ALTA QUALITA’ PER VINCERE LA CONCORRENZA - Quando ha cominciato, nel 1990, di esperienza non ne aveva neanche un po’: «I primi mesi mi chiedevo di continuo: chi me l’ha fatto fare? Poi mi sono organizzato, e ho imparato». Talmente bene che oggi Bin Hu, cinese di 36 anni, in Italia da quando ne aveva 8, di ristoranti a Milano ne gestisce tre, più uno in arrivo. Il primo, aperto nel ”90 in via Carlo Farini, faceva cucina cinese: «In quegli anni – ricorda Bin – cominciava il boom dei ristoranti etnici. Ho deciso di rischiare e mi sono buttato». Nel 2000, il primo cambio. Da cinese a giapponese, in linea con la sushi-mania: «I ristoranti cinesi si portavano dietro un’immagine cheap che mi stava stretta. Volevo fare un salto di qualità: il sushi, già solo perché ti obbliga a usare materia prima freschissima e di ottima qualità, ti porta subito a un livello superiore». Così nascono il Sushi Hama, in via Raffaello Sanzio e il Qor (si legge Cuor), in piazza Po: cucina fusion e atmosfere trendy. In media 150 coperti al giorno per ciascuno. Ed entro l’anno, in zona Fiera, l’ultimo esperimento: un cinese upper class. Ma dagli inizi ad oggi, che cosa è cambiato? «C’è molta concorrenza, perché siamo di più. E gli stranieri di seconda generazione hanno imparato a fare cose di alta qualità: noi al confronto eravamo dei "campagnoli"». Quantità, però, non va sempre d’accordo con qualità: «Oggi tanti sono ristoratori improvvisati. E se qualcosa va storto in un singolo locale poi il danno di immagine lo sconta tutta la categoria». E l’immagine, in certi casi, pesa davvero tanto: «La Sars, per esempio, ha messo in difficoltà tutto il settore». Momenti duri ma anche successi: Bin, con la moglie Cinzia, cinese di Bologna, ha esportato la formula «Qor» anche ad Atene, dove ha aperto un locale gemello, e a Milano, in via Marghera, ha lanciato il Berimbau, una churrascaria brasiliana. Gestita da un cinese? «Nei miei ristoranti lavorano cinesi, giapponesi, romeni, italiani e nippo-brasiliani: non sono solo i piatti ad essere fusion ». La lingua franca, ai fornelli, è l’italiano, ma qualche parola esotica ci scappa sempre: «I cuochi li scelgo locali: giapponesi per il sushi, o nippo-brasiliani». Per rispettare i sapori originali, venendo incontro ai gusti all’italiana: «Ma le ricette sono le stesse dei Paesi di origine. Qualche "adattamento" lo faccio nelle quantità: ai giapponesi piace portare in tavola piccoli assaggi, per gli italiani scelgo porzioni più abbondanti». E se qualche contaminazione c’è è rigorosamente dichiarata: «Abbiamo inventato l’udon ligure: pasta di riso con patate e pesto, e i maccheroni fusion, ripieni di tartare di salmone». O l’hussomaki Napoli: il rotolino è quello del sushi. Il ripieno? Mozzarella e pomodoro. Giulia Ziino