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 2010  marzo 07 Domenica calendario

ISLANDA. SI FA SCIVOLOSA LA STRADA VERSO L’EUROPA

E’ andata male e ora andrà peggio. La marcia forzata dell’Islanda verso l’Unione europea è un percorso a ostacoli che si fa ancora più in salita. Questo perché non bisogna aggirare solo la crisi finanziaria e il debito da 3,9 miliardi con britannici e olandesi che il governo (nonostante il referendum abbia bocciato la legge di rimborso) giura di voler comunque pagare. Fra Reykjavik e Bruxelles si frappongono altre barriere. C’è lo scetticismo d’un popolo caparbio abituato da sempre a fare da sé. C’è la caccia alla balena, proibita dall’Ue, a cui si dovrebbe rinunciare. Ci sono il merluzzo e i suoi cugini, il 70% dell’export nazionale, una risorsa per la quale gli islandesi hanno spesso combattuto e che ora dovrebbero condividere con spagnoli e francesi, i grandi pescatori del Mare del Nord.
Il premier Sigurdardottir, Johanna per tutti quanti, è certa che non ci siano alternative all’ingresso nel club a dodici stelle. Tre anni fa l’Islanda veleggiava in cima alle classifiche planetarie di sviluppo, poi c’è stata la tempesta che ha scoperto il trucco. L’economia era drogata dalla finanza facile e dal fisco leggero, la fine della liquidità ha fatto fallire le banche trascinando con sé l’intero Paese. Poco fertile, gelata e vulcanica, la Terra del ghiaccio ha vissuto per secoli di pesca e poco altro. Il credito spericolato l’ha portata sulla vetta del mondo. Nel 2007 il Pil correva del 5,7%. Nel 2009 è sceso di 6,5 punti e i consumi di undici. Una vera Caporetto congiunturale.
Dodici mesi fa è caduto il governo, e il conservatore Geir Haarde è stato il primo leader a perdere il posto causa crisi. Il Paese a pezzi voleva un cambiamento, si è andati al voto anticipato. Sulla tolda islandese è così arrivata la socialdemocratica Sigurdardottir, 67 anni, leader serenamente omosessuale, pugno di ferro, europeista per convinzione e necessità. Johanna, nominata in maggio, ha avviato di gran carriera la corsa verso Bruxelles, cercando di farla quadrare col risanamento strutturale e finanziario richiesto dalla sua fredda isola.
Il principale problema è il disavanzo accumulato dalle tre banche nazionali, passate in un anno dagli attici dei grandi affari alle stalle della bancarotta. La Glitnir, la Landsbanki e la Kaupthing sono riuscite a cumulare un rosso da 80 miliardi, sei volte il Pil di Reykjavik. Una tragedia dalle conseguenze globali. Perché la Landsbanki, fra l’altro, era andata a rastrellare soldi in Europa con la stella del banking online, l’ormai tristemente celebre Icesave. Il suo crac ha aperto un buco di miliardi nei portafogli dei piccoli investitori inglesi e olandesi, subito coperti dal denaro pubblico sborsato a Londra e l’Aia. L’Islanda doveva rimborsare la somma. Quando ci ha provato, è scoppiata la rivoluzione.
A Natale il governo Sigurdardottir ha varato una legge per fissare i termini secondo cui restituire il maltolto e, contemporaneamente, una serie di comitati hanno raccolto le firme per un referendum che spazzasse via la norma. «Il popolo non pagherà il conto delle banche», giuravano i promotori. Ce l’hanno fatta. Nonostante le minacce di britannici e olandesi, sono andati al voto nel momento di maggior rabbia e euroscetticismo.
Il che è pericolosissimo. La credibilità finanziaria islandese precipita, con conseguenze micidiale su tassi e accesso ai mercati. Il Fmi potrebbe rivedere la sua strategia di finanziamento. Il ministro degli Esteri Skarphethinsson ha detto che un accordo su Icesave si avrà «nelle prossime settimane», ma ieri gli olandesi hanno ammesso che il referendum influenzerà il loro assenso all’adesione all’Ue nel 2012. Londra potrebbe fare altrettanto. In tal caso, gli islandesi potrebbero essersi chiusi stanotte la porta dell’Europa e aver gettato via la chiave per un po’, una pessima notizia per chi ha perso un terzo della ricchezza in tre anni. Ci vorrà pazienza e diplomazia per convincere i Ventisette, e magari un sacco di tempo in più. Il Paese rischia grosso. Per consolarsi, potrà continuare a cacciare impunito le balene. Poca roba. Un cetaceo in meno non salva l’economia né i conti in banca.