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 2010  marzo 06 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 6 - GROSSO, COMICO, IGNORANTE

Siamo a Vittorio Emanuele I che torna a Torino. E per i Cavour, bonapartisti e massoni, è un guaio.
Sì, il 9 maggio 1814 Vittorio Emanuele I - un tizio mingherlino, dalla faccia triangolare «un po’ di babbeo, ma altrettanto di galantuomo», come scrisse poi Massimo d’Azeglio - apparve in cima alla passerella della nave che lo stava sbarcando a Genova. Uniforme turchina con i risvolti rossi, lungo panciotto, calzoni bianchi, stivaloni, cappello alla prussiana, cipria, codino. Un uomo che non veniva da Cagliari, ma direttamente dal Settecento. Passò i primi giorni a scaraventare dalla finestra di palazzo Madama sedie, tavoli, calamai, penne, libri, tutta roba colpevole di non essere esistita nel 1798. Il re ripeteva anzi di continuo la parola «Novant-Ott», alla piemontese, in un certo modo che i cronisti dell’epoca riferiscono sorridendo. Richiamò in servizio i funzionari di sedici anni prima, senza badare al fatto che magari erano morti. Proibì di adoperare la Cornice, la bella strada di Ventimiglia che portava in Francia e che aveva costruito Napoleone. Un vero reazionario.
E i Cavour?
Michele, il marchese capofamiglia, voleva prendere la moglie e i due bambini e cambiare paese. Poi vide che forse qualcosa si poteva tentare. Nel ”15 venne il Papa a Torino, vi fu la processione, l’ostensione della Sindone, la benedizione dal balcone di una folla immensa. Il re rilanciò anche la devozione per il cuore di Gesù e la Vergine Maria. Infine fece tornare in città i gesuiti.
Napoleone aveva mandato via i gesuiti?
I gesuiti neanche esistevano più. Propagandisti della fede, zelanti avversari della Riforma di Lutero, confessori di re e di prìncipi, quindi massicciamente presenti nelle corti d’Europa. E invadenti. E intriganti. A un certo punto Portogallo, Francia, Spagna e Regno di Napoli li espulsero (c’entrava molto anche la loro opposizione all’espansione coloniale), poi Clemente XIV, pressato da tutte le parti, soppresse l’ordine. Era il 1773. Pio VII, il papa di adesso (era di Cesena, la faccia giusta sarebbe quella del romano Valerio Mastandrea), appena rientrato a Roma dopo la prigionia francese li resuscitò con la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum. Vittorio Emanuele I li richiamò a sua volta, affidando loro istruzione e stampa.
Quindi?
Quindi c’era questo clima bigotto, e Michele si mise a pasticciar coi preti per trovare una via che lo riportasse a corte. Fece venire in casa l’abate Tardy (un altro attrezzo massonico e bonapartista in cerca di riabilitazione), più in là avrebbe accolto l’abate Frézet, nel ”16 costruì a Santena la cappella dove adesso sono sepolti tutti - ed Enrichetta, la terza sorella de Sellon, volle spiritosamente inumare nelle fondamenta un arlecchino -, accettò che il priore Pezzana gli riempisse la casa di poveri e fece beneficenza distribuendo, tra il Natale e la Pasqua, duecento minestre Rumford, cioè senza granturco. Venivano due lire e cinquanta l’una. C’era la carestia, si vedevano «i morti nelle pubbliche strade con l’erba in bocca e nello stomaco».
E il re?
Ci volle qualche altro passaggio per rientrare nelle sue grazie. Questa Enrichetta, la sorella più piccola di Adele, aveva sposato il conte d’Auzers, che era stato capo della polizia di Camillo Borghese. Era francese e aveva affittato una sua casa all’ambasciatore di Francia. Costui, in cambio, gli aveva ottenuto un invito a corte. Trovandosi di fronte alla regina, che era austriaca, i due s’erano messi a parlare tedesco. Lei era avvampata per l’emozione. Una certa sera, poi, avevano ottenuto, sempre per via dell’ambasciata di Francia, il primo palco a destra del Regio, una posizione rilevantissima. Sembrano sciocchezze, erano invece scalini decisivi per la risalita. Al Regio quella sera Enrichetta portò pure la mamma di Camillo.
Già, Camillo Benso di Cavour. Ce lo siamo scordato.
In quel momento era un bambino di 6 anni. Gustavo ne aveva dieci. Gustavo annunciava una natura meditabonda e che poi, alla morte della moglie, si farà sempre più malinconica. Camillo invece, secondo le parole della madre, «già buontempone, forte, chiassoso, e sempre occupato a divertirsi». Le «gros Camille», come diceva la zia Vittoria, testa dura che non riusciva a imparare a leggere e a scrivere, ostile allo studio sia quando era nelle mani dell’abate Ferrero che quando era in quelle del boemo Marschall, però allegro, vivace, ghiottone, «comico» (Filippina), «ignorant» (Vittoria), «sono salito in vettura per andare a Torino a tormentare tutti quanti» (una delle prime lettere, scritta naturalmente in francese), «volteggia come un uccello, fa i suoi 5 o 6 pasti , comanda ai cani Milord e Londra, dirige la Cassecour, si fa dar conto della quantità dei carri di vino, vezzeggia, litiga, carezza, stuzzica» (i d’Auzers dalla villa di Belangero). Che dice, lo mandiamo a scuola?
Forse ci vorrebbe.
Magari sabato prossimo.