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 2010  marzo 06 Sabato calendario

E’ IN TAVOLA L’OCA DI JOYCE

Quando il mio vecchio maestro, Giovanni Getto, lo sguardo di ghiaccio, ci interrogava sul Decameron o su Parini o Manzoni, non mancava mai una domanda sulle salsicce di Calandrino, sul «brun cioccolatte» del Giovin Signore, sulle polpette di Tonio. «La letteratura è fatta di cose», diceva Getto, «quanto alle idee: sono ovunque». Era un paradosso, si capisce, ma utile innanzitutto sotto il profilo ermeneutico.
Misticanze di Gian Luigi Beccaria, prodigiosamente ricco di cibi - regionali, rituali, nuziali, feriali, festivi - e vini d’ogni dove, è un libro sulla letteratura e le sue istituzioni. Come nei saggi di Camporesi (uno per tutti: il Petrarca padano), e l’aggiunta preziosissima d’una sapienza linguistica senza uguali, Misticanze ci dice che la letteratura è un luogo in cui si irradiano le cose che nella realtà si limitano a transitare e a sfuggirci, giorno dopo giorno: se Mario Soldati scrive che il vino è «una creatura» e «continua a vivere» nella bottiglia; e Calvino dice che, dietro ogni formaggio, «c’è un diverso cielo»; e Gadda sentenzia che scaglie asciutte di tartufo possono «decedere» sul risotto alla milanese, noi gustiamo due volte quei cibi e quel vino.
Gustiamo il cibo «pronunciato» e il cibo salvato, concettualmente e miticamente, in quelle clausole: «parlare è come inghiottire ciò che si vede o ciò che si legge», scrive Beccaria, d’altra parte «il gusto tende a trovare equivalenti verbali» del sapore dei cibi stessi. Nella letteratura si trovano l’oca grassa e dorata di The Dead di Joyce, la «piramidal di fragole collina» del padre Roberti, le zattere di pasta di mandorla del Folengo, e il lettore assapora le parole-cibo raddoppiando il suo proprio piacere: la lettura, dopotutto, è «incorporare parole».
Gli stessi elenchi copiosissimi - di paste, pani, carni, salse e polente - accrescono la verve particolare di questo libro: «être en verve c’est avoir envie de se mettre à la table», scriveva Jean Pierre Richard, ben sapendo, anche lui, che spirito e corpo, parole e cose «collaborano», e la nostra stessa fame, in sé, al di là del nome che la sostiene, non è quasi niente. Quanti nomi ha un taglio di carne? Garetto, geretto, fianchetto, girello, forcella, fusello, tasto, straculo, riflesso, lacerto, e cento altri. Che fa un vino «molto giovine» in una botte vecchia e mal cerchiata? «Grilla e gorgoglia e ribolle, e se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là» (Manzoni).
Cibi e vini, vivissimi nel linguaggio basso e nel linguaggio alto, sono peraltro la materia prima dell’allegria. E allegria e convivialità sono civili per definizione. Lo dicevano Montesquieu e tutto il Settecento: lasciare che il tempo voli, a tavola, «contribuisce non poco a darci quell’allegria che viene chiamata civiltà». Incivile e malinconico, al contrario, è Leopardi, che mangia da solo, anzi predica la monofagia come un bene prezioso per tutti. Méchant, cattivo addirittura, è Rousseau (secondo Diderot) in quanto ossessivamente solo, anche a tavola.
Gian Luigi Beccaria, qui, è conviviale - allegro, civile - anche nel modo di scrivere. Misticanze, forse il più saggistico dei suoi libri, ci invita a un banchetto talvolta oraziano, talvolta pantagruelico di parole-cibi. Se anche sprofondi nella storia cultura, delle sue interpretazioni e delle sue sottili rifrazioni linguistiche, l’autore lo fa con l’aria disattenta e il sorriso sempre disponibile del vero anfitrione. Perché, ad esempio, Adamo addentò la mela proibita? Una traditio medievale, ci dice Beccaria, avanza il dubbio che lo facesse non per superbia, ma per golosità, non per brama di conoscenza, ma di mele.