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 2010  marzo 06 Sabato calendario

MA QUANTI SONO GLI ANALFABETI D’ITALIA

Due scienziati come Luigi Luca Cavalli Sforza e Alberto Piazza chiamati a dirigere e coordinare «La cultura italiana», un’enciclopedia particolare che prevede dieci volumi più un dizionario della cultura. Se si intende cultura come «elemento differenziante l’Uomo da tutti gli altri animali», è naturale che un volume sia dedicato a Lingue e linguaggi: è il quinto, a cura di Gian Luigi Beccaria, dopo Terra e popoli, Casa, città e paesaggio,Scienze e tecnologie, Musica, spettacolo, fotografia e design.
Scorrendone l’indice si vede quanto il taglio sia peculiare e molto moderno: ci sono gli argomenti che ci si aspetta da un’enciclopedia che tratta di lingua italiana, e nell’ordine in cui è giusto che siano, come il rapporto della nostra lingua col latino affidato a Claudio Marazzini, seguito da uno studio delle varietà regionali di italiano di Tullio Telmon e subito dopo il saggio sui dialetti ad opera di Michele Loporcaro. Seguono la toponomastica e l’onomastica personale rispettivamente di Carla Marcato e Enzo Caffarelli. Compaiono poi le minoranze linguistiche storiche (franco-provenzale, ladino, tedesco, albanese, ecc.) presentate da Fiorenzo Toso e, con progressivo slittamento verso argomenti meno enciclopedicamente tradizionali, arrivano gli ultimi tre capitoli, uno dal titolo «Lessico e storia della gente» di Ottavio Lurati, un altro di Federico Faloppa sulle calunnie etniche nella lingua italiana e l’altro di Tullio Telmon sulla gestualità in Italia.
Una specie di saggio trasversale è costituto dallo splendido corredo iconografico a cura della redazione Utet capitanata da Daniela Possagno. La bellezza e la pertinenza delle illustrazioni su carta di qualità fa perdonare il notevole peso fisico del volume e pensare a previsti sviluppi futuri di fruizione non cartacea per generazioni in cui l’occhio non solo vuole la sua parte, ma fa la parte del leone. A fianco di doverose riproduzioni di manoscritti e cartine linguistiche, ci sono quadri e fotografie che fanno da accompagnamento multimediale al contenuto degli scritti. Particolarmente azzeccata l’illustrazione iniziale del saggio di Faloppa in cui un negretto che dipinge di bianco un altro negretto fa pubblicità a una vernice che copre il nero. Consustanziali e indispensabili le 224 illustrazioni di gesti nel capitolo di Telmon.
Un messaggio unitario proviene dai saggi e ne fa consigliare la lettura a tutti coloro che si occupano di lingua italiana in sedi quali la scuola, l’amministrazione centrale e locale, i mezzi di comunicazione: l’Italia non è mai stata effettivamente monolingue. E’ affermazione che si può fare per tutti gli Stati intesi come unità politiche, ma di certo la varietà linguistica del nostro paese è nota ed è stata chiara agli intellettuali da sempre. Volendo riassumere in poche parole due millenni, si può dire che oggi gli Italiani parlano varietà regionali di italiano e altre lingue così come al tempo dell’Impero Romano i nostri antenati parlavano vari latini e altre lingue.
Il saggio di Loporcaro ribadisce che i dialetti sono lingue altre, lingue sorelle dell’italiano, non sue forme alterate; lingue che, veneto nella Serenissima a parte, non sono approdate a status di lingua ufficiale per ragioni politiche e culturali. Quando i dialetti erano molto parlati, trasmessi da una generazione all’altra non erano lingue unitarie, anzi erano localmente molto differenziati. Adesso i giovani che parlano dialetto, specie se abitano in centri di media grandezza, parlano un dialetto «regionale» e italianizzato. Le intonazioni e pronunce caratteristiche dei dialetti sono però presenti nelle varietà regionali di italiano, anche nell’italiano di chi non ha mai parlato il dialetto locale.
Gli esperimenti di insegnamento di dialetti a scuola non possono ignorare questa realtà e, proposti in aeree urbane, sono più che altro lezioni di cultura e letteratura dialettale. Non ci vorrà molto tempo per arrivare a una situazione in cui chi parla un dialetto lo farà per ragioni volontaristiche, perché lo ha voluto imparare come una lingua seconda.
Dal volume a cura di Beccaria giunge anche un insegnamento che ci deve far meditare tutti, specie quelli con più responsabilità linguistica: le lingue cambiano e tanto più rapidamente quanto più i parlanti nativi accettano, anzi inseguono, l’influenza di una lingua straniera considerata più prestigiosa. Marazzini all’inizio del suo contributo indica una possibile ragione di rivalutazione del latino e dello studio dell’italiano anche da parte di stranieri nell’intercomprensione fra lingue romanze, il movimento per cui si favorisce lo studio che porta a capire quanti scrivono e parlano spagnolo, francese, portoghese, romeno senza imparare a parlare o scrivere tali lingue neo-latine. Chissà che gli Italiani, inguaribili esterofili, non imparino ad amare l’italiano perché vedono tanti stranieri che l’apprezzano.