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 2010  marzo 06 Sabato calendario

LE MILLE BANCHE CHE POSSONO SALVARE L’AMERICA

Merchant Street è un vialone nel centro di Honolulu a due passi dal mare ma lontano dalle spiagge gremite di turisti accaldati e surfisti abbronzati.
A parte gli uomini di affari del posto, sono in pochi a sapere che al numero 130 della «strada del mercante» c’è il quartiere generale della Bank of Hawaii, una delle più antiche negli Stati Uniti e, da un certo punto di vista, una delle più importanti. Con le altre 7.000 piccole e medie banche d’America, la Bank of Hawaii è un ingranaggio fondamentale nel motore dell’economia statunitense.
Non è un refuso: ho scritto proprio settemila. Nessun Paese, nemmeno la Cina dove il partito limita il numero di banche per controllarle meglio, ha un sistema finanziario così ramificato come l’America. Senza l’aiuto dei banchieri di Honolulu e dei loro colleghi di Pittsburgh, Cincinnati, Albuquerque e di ogni altro angolo remoto di un Paese che è quasi un continente, la più grande economia mondiale non sarà in grado di riprendersi dallo shock della crisi. Se la Bank of Hawaii e le sue rivali negli altri 51 Stati non prestano denaro a consumatori e imprese, risvegliando le attività produttive dal loro lungo torpore, il tasso di disoccupazione rimarrà elevato, il Pil smetterà di crescere e il sogno americano si trasformerà nell’incubo di un ristagno economico paragonabile al Giappone degli ultimi decenni.
Per chi vive a New York ed è immerso nella cosiddetta «alta finanza» è facile dimenticarsi di un semplice fatto messo a nudo dalle vicende degli ultimi due anni: la locomotiva della ripresa americana dovrà fare una fermata a Merchant Street prima di passare per Wall Street.
Dove la Germania ha le piccole società del «Mittelstand» e l’Italia una miriade di imprenditori locali, l’America ha un universo bancario così capillare e frammentato che i suoi membri vanno dalla Bank of America, che da sola controlla il dieci per cento dei depositi bancari, a centinaia di «community banks», banche di quartiere con una filiale e una decina di impiegati. Questa anomalia americana in campo finanziario deriva da condizioni geografiche - la necessità di offrire servizi a un Paese immenso con enormi differenze da zona a zona - e storiche - sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, gli americani hanno avuto una passione sfrenata per il federalismo e un’antipatia cronica per istituzioni centralizzate, sia private che pubbliche.
Alcune banche, che oggi sono dei giganti nel settore, sono cresciute proprio perché sono riuscite a espandersi oltre i loro confini naturali. Quando gli avventurieri del Far West «conquistarono» l’Ovest, furono le carrozze blindate a cavalli dell’American Express e della Wells Fargo (che ha ancora un vecchio cocchio come logo) a mandare i loro pochi risparmi alle famiglie che erano rimaste sulla costa orientale. Altre, come la Bank of America, sono il prodotto di fusioni tra banche regionali. Ma la maggioranza del sistema finanziario, che è tuttora considerato il più sofisticato e complesso del mondo, è composta da istituzioni di credito locali, troppo piccole per interessare alla grande stampa o agli investitori.
Ed è proprio per questo che, durante la crisi, mentre i mercati, i giornali e i politici si occupavano delle sorti di «Citigroup» e «Goldman Sachs», quasi nessuno si è accorto che la recessione paralizzava il sistema nervoso dell’economia americana. Strette tra perdite enormi su carte di credito e mutui, e prestiti mai ripagati da società locali (soprattutto le imprese di costruzioni distrutte dalla débâcle del mercato immobiliare), molte banche sono state costrette a scegliere tra inattività e morte.
Gli ultimi dati ufficiali - usciti la settimana scorsa - mettono i brividi. La quantità di prestiti fatta dalle banche americane è crollata del 7% nel 2009 - il più grande calo annuale dal 1942, subito dopo la Grande Recessione. Ma c’è di peggio. Il numero delle istituzioni considerate ufficialmente «a rischio» di bancarotta dalla Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’Authority di settore, è balzato a 702 negli ultimi tre mesi, il livello più alto negli ultimi 16 anni.
La fonte che più stimo su questo argomento - un avvocato che lavora nel settore bancario da più di trent’anni - ha promesso di pagarmi una cena da «Per Se», il ristorante più caro di New York, se il numero di banche che falliranno nel 2010 non supera le 140 che sono andate in malora l’anno scorso.
«Il settore delle piccole e medie banche è come una macchina senza freni che accelera verso il baratro», mi ha detto l’altro giorno nel suo ufficio con vista sulla Statua della Libertà. «A meno di un miracolo, non la si può fermare».
Forse ha esagerato un po’ per compiacere un giornalista in cerca di una citazione. Alcune banche, come per esempio la «Bank of Hawaii», stanno benissimo, in parte perché non hanno mai fatto prestiti o dato mutui a tassi altissimi al famigerato «subprime sector» - gente così povera da non avere i soldi per ripagare i prestiti. «Non ho mai capito come una banca potesse fare soldi a lungo termine con quel tipo di prestito», mi ha detto Allan Landon, il capo della Bank of Hawaii un po’ di mesi fa, una logica che non fa una grinza ma che è stata l’eccezione, non la regola, tra le banche americane.
La maggior parte delle istituzioni si è fatta sedurre dalle sirene del «fast buck», la chimera del fare tanti soldi velocemente attraverso prestiti al settore subprime e società locali senza grandi mezzi. In realtà, se si trattasse solo di vedere un centinaio di piccole banche andare in bancarotta, un’economia come quella Usa sarebbe in grado di assorbire il colpo senza soffrire più di tanto. Il problema è che questo è proprio il momento in cui lo Zio Sam ha bisogno di tutte le 7.000 banche per trascinare il Paese fuori dalla recessione.
Con Obama che lancia pacchetti stimolo da centinaia di miliardi di dollari, la banca centrale che tiene i tassi bassissimi e un settore imprenditoriale che dice di volere investire dopo anni di vacche magre, l’unica cosa che manca è un sistema bancario in buona salute per «passare» i soldi dal governo e la Federal Reserve a consumatori e imprese.
Non c’è bisogno d’essere nei box della Ferrari per sapere che nessun motore - né economico, né meccanico - può funzionare se la trasmissione è rotta.