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 2010  marzo 07 Domenica calendario

HO DATO UN CONFINE ALL’INFINITO

La partenza, a Roma, nel 1967, matricola universitaria «curiosa e un po’ secchiona». Da allora un viaggio mai interrotto attraverso formule e operazioni. Con lo studio che si mescola alla vita e lo sguardo sempre verso l’alto, a desiderare, cercare e persino sfidare l’«iperuranio degli enti matematici». Incontrare Corrado De Concini, professore di Algebra alla Sapienza, tra i più grandi nomi della disciplina, significa addentrarsi in un’esperienza di passione e di tenace dedizione.
Ha insegnato e svolto ricerche nelle migliori scuole del mondo, da Harvard al Massachusetts Institute of Technology, dal Tata Institute di Mumbai alla Normale di Pisa, fino alla gemella cole normale di Parigi dove ha occupato la prestigiosa cattedra Lagrange-Michelet. Eppure parla con grande modestia e sobrietà nella sua casa romana: un attico a due passi da San Pietro, già appartenuto al padre Ennio, sceneggiatore premio Oscar nel 1963 per Divorzio all’italiana. All’attivo un’ottantina di pubblicazioni, contributi scientifici decisivi e incarichi importanti – socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, editor di numerose riviste specializzate, già presidente dell’Istituto nazionale di alta matematica’ De Concini preferisce definirsi un «risolvitore di problemi» piuttosto che un illustre studioso. E considera un «privilegio», anziché un lavoro, la possibilità di partecipare al grande «gioco» della matematica: «Perché mi consente una costante sfida intellettuale con me stesso».
Parla nell’atmosfera calda e familiare del salotto, tra decine di foto che raccontano almeno tre generazioni di De Concini e di Strickland (il cognome della moglie Elisabetta, di origine inglese, anche lei docente di matematica ma all’università Tor Vergata). Veniamo interrotti ogni tanto solo dallo squillo del telefono: sono i compagni di corso di Guglielmo, il minore dei due figli, che studia Fisica e sta preparando un esame. «Allo scritto però ha già preso trenta – racconta orgoglioso il papà ”. Ho anche una figlia, Elena, che mi ha dato due nipoti».
Quando passa a riflettere su di sé e sul suo rapporto con la matematica, il professore è più sistematico e misurato. Non vorrebbe varcare i limiti con la filosofia, per una forma di onestà metodologica che lo spinge a non esprimersi su altri campi del sapere. Alla fine però l’entusiasmo prevale, il linguaggio diventa meno sorvegliato e addirittura platonico. «Considero la matematica una delle più grandi forme di espressione dello spirito umano. Attraverso le scienze naturali si descrive la realtà esterna. Con la matematica possono esplicitarsi le strutture interne, contenute nella mente degli uomini». Da qui, il suo approccio a operazioni e formule («coltivato più nella pancia che razionalmente», precisa): «Amo credere a un iperuranio degli enti matematici, un sofisticato mondo di idee preesistenti da portare alla luce».
Un modello che sottende una sfida antica: quella dell’uomo con la conoscenza, tanto più ardita, per certi versi, quanto più i contenuti non hanno evidenza concreta ma si collocano nel regno dell’astrazione. Come quelli prediletti da De Concini: gruppi algebrici e geometria algebrica. Ovvero, semplificando, insiemi di oggetti legati da operazioni che soddisfano particolari proprietà ed enti geometrici definiti come soluzioni di equazioni polinomiali. «Ho il massimo rispetto per chi lo fa, ma non sono interessato né alla loro applicazione né divulgazione» precisa il professore, manifestando un gusto del sapere per il sapere che arriva a sfiorare l’edonismo e il piacere estetico.
Lo si capisce quando ripercorre i traguardi della sua carriera. Come le «Compattificazioni meravigliose», una costruzione geometrica introdotta all’inizio degli anni Ottanta, insieme con il collega Claudio Procesi. L’indagine avvenne nel campo dei gruppi algebrici e fu come «dare un confine all’infinito»: a insiemi illimitati i due studiosi riuscirono a porre un termine. «Inserimmo una specie di bordo fino a formare una nuova struttura che definimmo "meravigliosa", tanto belle erano le sue proprietà» spiega De Concini, sforzandosi di rendere intellegibile il suo linguaggio specialistico.
Non è un caso che il professore citi tra i suoi punti di riferimento il matematico tedesco che fu collega di Einstein, Hermann Weyl. E una frase di quest’ultimo: «Il mio lavoro ha sempre cercato di unire Verità e Bellezza, ma quando ho dovuto scegliere tra l’una e l’altra ho scelto la Bellezza». Gli studiosi di scuola francese Jean-Pierre Serre e Alexander Grothendieck, gli altri modelli: «Giganti della matematica del Novecento ma anche esempi di integrità intellettuale e correttezza espositiva».
Ne parla con la distanza colma di ammirazione che separa ognuno dai propri miti. Eppure emerge intenso, al contempo, il senso di appartenenza a una stessa comunità. Insieme con l’orgoglio di possedere un linguaggio per pochi ma capace di attraversare lo spazio e il tempo. «Con i nostri risultati possiamo contribuire alla Storia, eliminando massi dalle autostrade del sapere» argomenta De Concini. Come quando, nel 1976, dimostrò il «Primo e Secondo Teorema fondamentale della teoria degli invarianti in caratteristica libera», a proposito del concetto – apparentemente paradossale al di fuori della matematica – secondo cui oggetti che subiscono una trasformazione possono restare inalterati. «Il teorema esisteva già dall’Ottocento. Noi ne allargammo l’estensione».
Autostrade capaci di attraversare i secoli, appunto. Ma anche di unire in sodalizio studiosi più o meno lontani. «I matematici viaggiano molto» racconta De Concini, che non di rado pronuncia parole in inglese (del tipo «understood», «capito»). Cita amici accademici di ogni parte del mondo, come il suo ex professore romeno George Lusztig, l’indiano Seshadri e il russo Victor Kac. «Un fratello maggiore» dice del compagno di scoperte Procesi. Persino nel salotto di casa è appeso un quadro dipinto dal matematico Enrico Bombieri, vincitore della prestigiosa Medaglia Fields nel 1974.
«Siamo una cricca al limite dell’esoterismo» ammette De Concini. E anche in nome di questo senso quasi religioso della sua attività, si dice «depresso per le scelte politiche che impediscono l’ingresso dei giovani nell’università italiana». Per il professore lo sconfinare della matematica nella vita appare una scelta consapevole piuttosto che inevitabile, come può invece accadere se si svolgono professioni molto coinvolgenti. Lui stesso si definisce un «chierico» della disciplina e un «animale accademico». Tanto che rievoca con nostalgia le conversazioni alla mensa della Normale di Pisa, dove studenti e professori siedono ogni giorno allo stesso tavolo.
«Lì poi c’è un valore aggiunto’ osserva ”: ai pranzi e alle cene partecipano anche i letterati. Credo che i matematici siano, tra gli scienziati, quelli a loro più vicini. Persino nel modo di pubblicare. Meno articoli ma più lunghi e molto legati ai risultati di un’indagine». Anche De Concini ha trascorsi umanistici: «Terminato il liceo classico, fui in dubbio se fare il papirologo. Pure in quel caso avrei comunque dovuto risolvere enigmi». Una convivenza di interessi, scientifici, letterari e anche artistici, che affiora dagli scaffali e dalle pareti del suo studio. Qui gli attestati ottenuti per la matematica convivono con la collezione dei romanzi di Simenon, l’ultimo libro di Paul Auster e la biografia di Dickens, i poster di Marilyn Monroe e la locandina originale di Divorzio all’italiana.
Inevitabile, forse, se i primi ricordi che evoca di suo padre sono «l’immensa biblioteca» e «le partite a pallone con Pasolini nel corridoio di questa casa». «Chiamavano papà il "Balzac di via Catone" – racconta ”. Aveva una fantasia straordinaria e scriveva fino a cinquanta pagine al giorno». Ne parla con ammirazione e affetto, pur ammettendo che «non sempre era facile essere suo figlio». Identità nella differenza: «Sono stato più serio e studioso – confida’ ma è da lui che ho ereditato il mito del successo intellettuale». Non è allora una coincidenza se, a proposito di suo padre, pronuncia senza accorgersene la definizione usata all’inizio per se stesso: «Risolvitore di problemi». Glielo facciamo notare: «Nel suo caso si trattava di sciogliere le trame cinematografiche. Ma forse in fondo è la stessa cosa».
La stessa: la passione per l’enigma. Identica per lui, per suo padre e per il commissario Maigret.
Alessia Rastelli