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 2010  marzo 07 Domenica calendario

LA GIOVANE DEMOCRAZIA DEGLI 86 PARTITI’

Almeno due le novità delle elezioni parlamentari irachene di oggi. La scelta sunnita di votare in massa, in controtendenza rispetto alla propensione all’astensionismo al voto del 30 gennaio 2005. E l’evidente spinta verso la laicità diffusa tra larghi settori dei partiti e dell’elettorato, un fatto che sembra oscurare il settarismo religioso prorompente tra gli iracheni dopo l’invasione anglo-americana del marzo 2003. Meglio stare cauti però, pur ribadendo che si tratta di un passo importante per il futuro del Paese e la sua claudicante democrazia. Cinque anni fa le prime elezioni parlamentari dalla caduta della dittatura di Saddam Hussein furono salutate in modo trionfale. Il fatto che le gigantesche misure di sicurezza imposte il giorno del voto avessero quasi azzerato gli attentati venne platealmente celebrato come una svolta epocale. Salvo poi costringere i commentatori a ricredersi nei quasi tre anni seguenti caratterizzati da massacri, insicurezza e povertà.
Oggi dunque il bicchiere può essere visto come mezzo pieno o mezzo vuoto. Ad alimentare la visione positiva del voto c’è il fatto evidente che la violenza è in diminuzione. Sono gli effetti di lungo periodo del surge militare americano imposto nella prima metà del 2007, quando oltre 30 mila rinforzi portarono il corpo di spedizione Usa a 170 mila effettivi, che si mischiarono alle nuove forze di sicurezza irachene in modo capillare per battere i «sadristi» sciiti e soprattutto l’estremismo sunnita pro Al Qaeda. Il fatto che poi i «Consigli del Risveglio», vere milizie armate create dai capi tribù sunniti con il finanziamento di Washington, avessero accettato di coalizzarsi contro il terrorismo ha davvero contribuito a migliorare la situazione. La prova del nove per gli americani è che ora i quasi 900 mila tra poliziotti emilitari iracheni riescano davvero a controllare il voto, gli scrutini e quindi tutta la fase delicatissima che dovrebbe condurre al nuovo governo.
Una fase che rischia di essere molto lunga: nel 2005 furono necessari quasi 6mesi. Le incognite sono infinite, compreso che possa verificarsi una situazione simile all’Afghanistan dopo il voto dello scorso 20 agosto, quando i brogli gettarono fango sull’intero processo politico. In Iraq, se l’ordine pubblico dovesse tenere, Barack Obama potrebbe dunque seguire con successo il suo calendario annunciato un anno fa, quando promise di riportare a casa «entro il 30 agosto 2010» oltre la metà dei suoi soldati, che al momento sono 96 mila. Di recente l’ambasciatore americano a Bagdad, Christopher Hill, ha ricordato cauto un classico detto di Winston Churchill, per cui la forza della democrazia non sta nei voti, ma nella loro conta. E ha aggiunto ancora più circospetto: «Il vero test non sarà in chi vince, bensì sul comportamento di chi perde».
Proprio la relativa calma degli ultimi tempi ha comunque permesso di oliare la macchina elettorale. Oltre 10 mila seggi protetti da misure eccezionali. Da ieri notte è vietato viaggiare in auto nelle città.
Degli oltre 31 milioni di cittadini iracheni, quasi 19 hanno diritto al voto. Di questi, uno e mezzo si trovano all’estero, sparsi in 18 Paesi, con la maggioranza concentrata in Giordania e Siria, dove da due giorni sono già iniziati gli scrutini. Tra loro i quadri del vecchio regime baathista, ma soprattutto civili terrorizzati, vittime della pulizia etnica tra sciiti e sunniti che ha insanguinato l’Iraq, specie tra 2004 e 2007. Ci sono medici, ingegneri, tecnici petroliferi, professori universitari, industriali, professionisti, insomma il meglio della società civile che attende in gran parte di poter tornare a casa.
La nuova legge elettorale porta i seggi del Parlamento da 275 a 325. Per loro sono in lizza 86 formazioni politiche, che presentano 6.259 candidati. Elemento di novità è il blocco Iraqiya, guidato dal 65enne Iyad Allawi, che raccoglie una trentina di formazioni minori, molte delle quali radicate tra i sunniti di Falluja e Ramadi. Un volto noto. Allawi fu il premier iracheno che per quasi un anno dal luglio 2004 guidò il Paese dopo la fine del governatorato di Paul Bremer, l’ex ambasciatore Usa voluto da Bush (dopo la breve e fallimentare parentesi di Jay Garner) per il primo anno del dopoguerra. Oggi ripete il suo vecchio cavallo di battaglia: basta con la debaathificazione, basta con le divisioni religiose, basta con le interferenze dell’Iran, ricreiamo l’ethos nazionale in nome della cittadinanza. I sondaggi lo danno in vantaggio grazie al forte appello all’unità tra sciiti e sunniti. Soprattutto piace il suo passato: sciita, baathista della prima ora, poi fuggito a Londra, dove già alla fine degli anni Settanta Saddam Hussein mandò i suoi sicari per assassinarlo. «Allawi incarna il bisogno diffuso di un uomo forte. E di Stato secolare, capace di stare al di sopra del settarismo» notano all’università di Bagdad. Un appello questo alla laicità che viene ripreso anche dal suo avversario diretto, il 60enne Nuri al Maliki, premier dal 2006 ad oggi, che per apparire meno legato al fronte esclusivamente sciita ha cambiato nome alla sua coalizione (raccoglie 36 formazioni): da Dawa, l’antico gruppo religioso sciita degli anni della clandestinità, a quello assolutamente illuminista di Alleanza per lo Stato di diritto.
Terza forza che sarà inevitabilmente parte della prossima coalizione di governo è quella dei curdi, che rappresentano il 20 per cento degli abitanti del Paese. Sono una presenza ben organizzata, divisa in quattro partiti, di cui il più popolare è la Coalizione curda, creata dalla cooperazione tra il Partito democratico di Masud Barzani e l’Unione patriottica guidata dal presidente iracheno, Jalal Talabani. I curdi sono ben felici di rafforzare il carattere laico dello Stato contro l’islamizzazione fondamentalista (non a caso sono votati anche da molti cristiani del nord). Eppure con loro tutti i partiti «arabi» dovranno presto affrontare la questione della legge petrolifera.
Il nodo è aperto: l’Iraq è potenzialmente terzo Paese produttore di greggio al mondo. L’anno scorso, pur restando fermo alla quota di 2,5 milioni di barili al giorno, ha portato alle casse dello Stato quasi 40 miliardi di dollari. Ma come gestire i pozzi, molti dei quali posti nel nord? I curdi sono ormai uno Stato nello Stato. Se a Bagdad la situazione dovesse precipitare, sarebbe molto semplice per loro dichiarare la totale indipendenza.
Lorenzo Cremonesi