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 2010  marzo 07 Domenica calendario

DAL PREMIER «BRUTALITA’». IL PRESIDENTE ALZA LA VOCE: VEDREMO CHI HA RAGIONE

Tutto si è giocato nell’arco di un’ora, durante il confronto più duro che Napolitano abbia mai avuto con Berlusconi. Un colloquio, quello di giovedì sera al Quirinale, in cui il premier non si è curato di dissimulare la sua insofferenza alle regole e al sistema di pesi e contrappesi normali in ogni democrazia. Fino a esprimersi «con brutalità» – secondo il racconto di chi c’era – nei confronti del capo dello Stato. Cercando di imporgli, con tono perentorio e ultimativo, la firma di un decreto costituzionalmente inaccettabile, cioè la riapertura dei termini di presentazione delle liste. E sostenendo che era potestà e responsabilità dell’esecutivo approvarlo e che la ratifica del Quirinale era solo un passaggio formale e comunque obbligato. Si pretendeva insomma una presa d’atto. Come se chi doveva controfirmare la legge fosse un semplice passacarte, un notaio senza altro ruolo che quello del certificatore.
 stato a quel punto dell’incontro che il presidente ha alzato anche lui la voce. Con un gelido avvertimento che ha fermato il Cavaliere. Formulato più o meno in questi termini: «Se davvero ne siete convinti, provateci e io solleverò un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale... poi vedremo chi ha ragione».
Il tentativo del presidente del Consiglio, che ricorda sempre di essere «l’unica carica istituzionale eletta dal popolo», con l’implicita pretesa che questo lo abiliti a porsi sopra a tutto (fino a confondere i piani istituzionali), davanti a una simile e netta linea di confine era impossibile.
Meglio una mediazione, deve aver pensato in quel momento Bobo Maroni, che con Roberto Calderoli, Ignazio La Russa e Gianni Letta componeva la delegazione di Palazzo Chigi, fino ad allora impietrita nel silenzio. Nello studio del Colle l’aria si è fatta meno pesante dopo che il ministro dell’Interno (cui compete sovrintendere alle modalità del voto) concordava che la strada del provvedimento «interpretativo» era la più percorribile. E annunciava, con l’appoggio dell’eterno «ammortizzatore delle tensioni» Letta, che il governo ci avrebbe lavorato subito.
Così si sono lasciati, alle 22 di quella notte, Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi. Tra musi lunghi, un secco altolà, minacce e parole fuori controllo fin quasi alle escandescenze, delle quali il premier si è però scusato al telefono con il capo dello Stato (ieri mattina). Le ventiquattr’ore successive sono state convulse di contatti con il mondo politico e, soprattutto, di verifiche tra gli uffici giuridici dei due Palazzi.
A livello politico, sul tavolo del presidente si accumulavano i dispacci d’agenzia con i resoconti sulle prevedibili accuse e recriminazioni incrociate, richiami alla piazza e anatemi contro le fisime di burocrati arciformalisti (che per i falchi del Popolo della libertà erano, ovviamente, tutti coloro che si appellavano alle regole e chiedevano che non fossero cambiate in corso d’opera). Un dossier dal quale affiorava poca voglia di cercare la «larga intesa» da lui raccomandata per la tanto invocata soluzione politica, che avrebbe dovuto tradursi in un provvedimento legislativo.
Ma qualcuno gli riferiva anche di qualche singolare proposta sulla quale stavano avvenendo sondaggi sottotraccia tra i due poli. Ad esempio l’idea di un decreto’ escamotage (ne avrebbero almanaccato in particolare D’Alema e Letta), per consentire a coloro che avevano partecipato e vinto alle elezioni precedenti di scansare l’onere di presentare le firme per questa tornata di voto. Un’ipotesi impraticabile. Un azzardo assoluto, e infatti nulla di tutto questo è emerso neanche dalle più dietrologiche cronache parlamentari.
Come prima opzione avrebbe voluto un disegno di legge, Napolitano. Da far sottoporre ai due rami del Parlamento e da approvare in sede deliberante magari attraverso una corsia preferenziale: una possibilità da investigare, che non sarebbe però mai riuscita ad essere abbastanza tempestiva. Aveva ragionato pure su un possibile rinvio del voto, ma le opinioni delle forze politiche erano troppo divergenti. Qualcuno sembrava disponibile ad accettarlo soltanto per la Lombardia (Casini). Altri lo avrebbero forse approvato, purché si estendesse a tutt’Italia (i radicali). Altri ancora lo respingevano tout court.
Uno scontro duro, che stava aprendo ferite istituzionali, oltre che incanagliendo il confronto politico, anche se nessuno dell’opposizione dichiarava di voler approfittare della bocciatura delle liste di Renata Polverini a Roma e di Roberto Formigoni a Milano. Non il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, che spiegava di rifiutare un probabile ko «per abbandono dell’avversario». Non il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che diceva di non voler vincere «a tavolino».
E, mentre Silvio Berlusconi insisteva a non riconoscere gli errori del Pdl, sul capo dello Stato ormai sotto assedio incombeva «la responsabilità di garantire un diritto fondamentale degli elettori».
Ecco che cosa ripeteva Giorgio Napolitano a chi cercava di capire la sua posizione, durante la convulsa giornata di venerdì. Fino a quando, dopo un braccio di ferro fino alle virgole sulla norma «interpretativa» e «non innovativa» escogitata dal governo, il decreto è stato approvato dal Consiglio dei ministri. E controfirmato in fretta (ma con la cautela di farlo riesaminare nella stesura definitiva dai consiglieri giuridici) dal presidente, poco prima di mezzanotte. In tempo per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di ieri, con immediata entrata in vigore, in maniera da consentire ai giudici investiti dei ricorsi di esprimere il fatidico «nulla osta» nelle loro sentenze.
La prova di forza, naturalmente, non si è chiusa con quell’atto. Certo: il capo dello Stato aveva messo nel conto i contraccolpi polemici su di lui. Data la sua lunga esperienza politica, sa bene che in campagna elettorale tutto si esaspera e si trasforma in conflitto. Ma l’onda di proteste che ha assediato il Quirinale dall’altra notte, con i cori e i sit-in del «Popolo viola» e con la prospettiva di una velenosa coda in Parlamento, lo rattrista e preoccupa. Gli pare non soltanto ingenerosa, ma ingiusta.
Dopotutto l’esercizio delle sue prerogative lo obbliga, al cospetto di un decreto legge, a bocciare unicamente i provvedimenti che presentino caratteri di «manifesta incostituzionalità».
Cosa che ha fatto, respingendo la prima ipotesi presentatagli dal premier. La soluzione successiva, invece, quei caratteri non li aveva. A giudizio suo e dell’intero staff di costituzionalisti che lo affianca. Anche se la giudicava in cuor suo «una toppa» non certo entusiasmante. Per cui sentirsi accusare di aver violato i propri doveri e di aver «offeso la democrazia», tanto che alcuni leader politici evocano adesso nei suoi confronti addirittura l’impeachment, lo mortifica.
Così come lo mette in ansia l’idea che i cittadini, confusi dalla cacofonia di voci, possano dubitare della sua scelta, considerandola un cedimento. Umori cupi, dai quali è nata la risposta epistolare diffusa ieri sul sito Internet del Colle.
Marzio Breda