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 2010  marzo 08 Lunedì calendario

I COSTI DELLA MATERNITA’, PER VOCE ARANCIO


Il 76% dei dirigenti milanesi pensa che le donne meritino più posti di responsabilità. Il 77% ritiene però la maternità sul lavoro un handicap (Dati Camera di Commercio di Milano, 2005).

I direttori responsabili di 134 aziende con oltre 300 dipendenti, interrogati sui costi della maternità, hanno tutti concordato che «sì, costa troppo». Nessuno però ha saputo quantificare la spesa (Studio dell’Osservatorio sul diversity managmente della Sda Bocconi School of Managment).

Le gravidanze pesano sul bilancio delle aziende per lo 0,23% del totale dei costi di gestione del personale. La cifra è formata solo dall’affatticamento organizzativo: la sostituzione, la formazione per la sostituzione, il reinserimento della mamma al lavoro, le eventuali assenze non programmate, l’incertezza relativa alla possibile perdita di capitale umano. Durante i periodi di astensione dal lavoro, è l’Inps a corrispondere lo stipendio alla lavoratrice (5 mesi obbligatori all’80 per cento della retribuzione e altri sei facoltativi al 30 per cento) (Studio dell’Osservatorio sul diversity management della Sda Bocconi School of Management).

In termini economici il costo medio della maternità per le grandi aziende (più di 300 dipendenti) è di 23.200 euro, pari alle spese di cancelleria.

I costi diminuiscono sensibilmente quando le lavoratrici-madri riferiscono di avere capi sensibili, attenti al benessere dei collaboratori, impegnati nella valorizzazione dei loro successi, nell’ascolto, nella realizzazione dei loro bisogni e nel raggiungimento di un equilibrio tra la vita professionale e quella personale (Studio dell’Osservatorio sul diversity managment della Sda Bocconi School of Management).

Altro fattore che riduce i costi della maternità: le competenze relazionali della madre. Se la donna utilizza una stile improntato alla trasparenza e alla sincerità si verifica una significativa diminuzione dei costi relativi all’incertezza (Studio dell’Osservatorio sul diversity management della Sda Bocconi School of Management).

Accordo raggiunto fra il ministero della Difesa e il ministero delle Pari opportunità: un’aspirante ufficiale che rimane incinta durante il primo anno di corso deve tornare a casa e sperare di essere recuperata (se riesce a laurearsi) attraverso un’aliquota di posti riservati. Se invece la gravidanza arriva nel secondo anno, la futura tenente non potrà essere mandata via: terrà il bambino con sé, anche durante le esercitazioni. Le Forze armate dovranno allestire delle nursery e trovare spazio per bambino e pannolini anche nelle cabine della Amerigo Vespucci (la nave scuola utilizzata dall’Accademia navale di Livorno).

Le donne in Italia possono restare a casa al massimo per 47 settimane complessive. in Germania: 159 settimane. In Francia: 162 settimane. La differenze tra tasso di occupazione femminile e tasso di occupazione delle mamme in Italia è simile a quello che c’è in altri paesi come Francia e Germania. In Italia il livello di flessibilità dell’orario del lavoro o la possibilità del lavoro da casa è tra i più bassi. (Dati Oecd).

L’articolo 9 della legge 53 del 2000 prevede contributi a fondo perduto per le imprese che presentino progetti per l’introduzione di forme di flessibilità lavorativa al fine di facilitare la conciliazione lavoro-famiglia.

Tasso di occupazione delle donne single: 86,5 per cento; delle donne in coppia ma senza figli: 71,9; delle donne con meno di tre figli: 51,5; delle donne con tre figli o più: 37 per cento.

A parità di lavoro le donne italiane guadagnano il 26 per cento in meno dei colleghi uomini.

Istituti di ricerca come Catalyst o McKinsey affermano, dati alla mano, che il valore aggiunto delle donne sul lavoro - il loro stile di direzione, l’attenzione alle persone, la gestione delle relazioni, la prevenzione dei conflitti - porta le imprese ad avere risultati migliori.

Emma Marcegaglia, nel suo discorso di investitura ai vertici di Confindustria, ha quantificato il vantaggio dell’occupazione femminile: +7 per cento del prodotto interno lordo (dati Banca d’Italia).

I salari delle mamme: ridotti rispetto a quelli dei papà anche perché il periodo di congedo parentale, a differenza di quello di maternità obbligatoria, non è conteggiato ai fini del calcolo della tredicesima.

In Germania il 30 per cento delle donne con un’istruzione universitaria ha scelto di rinunciare ai figli. In Inghilterra il numero delle no kids è raddoppiato in vent’anni. In Giappone più della metà delle trentenni è ancora senza prole (nel 1985 erano il 24 per cento). In Francia si calcola che il 12-16 per cento delle nate negli anni ’80 non avrà mai figli. In Italia secondo l’Istituto nazionale di studi demografici, il 6 per cento delle italiane tra i 20 e i 30 anni dichiara di non volere figli.

Il caso dell’Avtovaz di Togliattigrad, la più grande fabbrica automobilistica russa, 100mila dipendenti di cui la metà donne, che ha annunciato due nuove ondate di licenziamenti a causa della crisi. Nel giro di alcuni mesi oltre cinquemila lavoratrici (5.042) sono rimaste incinte e hanno preso il congedo di maternità. Secondo il quotidiano moscovita Nezavisimaia Gazeta, la situazione sarebbe vantaggiosa non solo per le donne, ma anche per la direzione di Avtovaz, che in questo modo può scaricare sullo stato il pagamento degli assegni di maternità.

Sul sito www.mamma.it è possibile calcolare quanto costa avere il primo figlio. Scegliendo di comprare tutto al minor prezzo: 5.038 euro (senza babysitter ma con l’asilo nido e considerando l’acquisto di 10 tutine, 10 golfini, 2 pigiami, 10 calze, 3 ciucci, 2 paia di scarpe e 2 accappatoi). Al prezzo massimo: 9.333 euro (stessi parametri).

La spesa media per mantenere un figlio dalla nascita fino ai 24 anni di una famiglia dell’Italia centrale che guadagna 3.500 euro netti al mese è di circa 210.000 mila euro, e sale a 230.000 se si ha bisogno della baby-sitter. La cifra cresce con l’aumentare del reddito.

Per mantenere un bambino di 3 anni, la stessa famiglia dell’Italia Centrale spende circa 580 euro al mese (babysitter esclusa). La voce più pesante tra le spese dirette è l’alimentazione, mentre tra i costi indiretti al primo posto c’è la casa, che si presume debba essere più grande per ospitare il nuovo membro della famiglia. Più i figli crescono, più il conto sale: a 16 anni si arriva a 780 euro al mese.

I figli cresciuti al Sud costano il 6% in meno rispetto a quelli cresciuti al Nord. Il secondo figlio costa il 30% in meno del primo.

In Italia l’arrivo del primo figlio fa diminuire il budget di una famiglia da un minimo del 18 per cento a un massimo del 45. Per la precisione, tra pappe, pannolini, biberon eccetera (per non parlare del latte in polvere che da noi costa il doppio che nel resto d’Europa) una coppia spende tra i 500 e gli 800 euro al mese. Non solo: tredici donne su cento, dopo il parto, sono costrette ad abbandonare il lavoro per via degli «orari troppo scomodi e troppo lunghi, pensati esclusivamente per gli uomini». Risultati: nascono sempre meno pupi (1, 33 per donna, ma a partorire sono soprattutto le straniere che da sole raggiungono una media di 2,6 figli a testa); l’età media delle mamme è passata dai 27 anni della fine degli anni Settanta ai 30,8 del 2005; sono raddoppiate, negli ultimi dieci anni, le madri ultraquarantenni (mentre sono diminuite del 18 per cento quelle minorenni); aumentano le coppie senza figli (19,8 per cento dei nuclei familiari, contro il 39,5 per cento di quelle con bambini, delle quali una su due ha un solo figlio, specie al Nord); i nuclei familiari composti da un unico genitore con figli (nella maggioranza dei casi la madre) sono due milioni: di questi, un terzo è povero (dati Istat).

Nel 2004 gli italiani hanno speso 3.513 milioni di euro in abbigliamento per bambini. All’edizione invernale di PittiBimbo del 2006 i compratori sono stati diecimila, più di tremila stranieri; hanno esposto 349 aziende e 483 marchi. Le aziende produttrici di moda dall’infanzia all’adolescenza sono diventate circa duemila. Secondo The Juvenile Products Manifacturers Association, negli Usa il business legato al mondo dell’infanzia è di 45 miliardi di dollari l’anno. Si spendono 1500 dollari per la borsa porta pannolini di Louis Vuitton e 2800 dollari per la carrozzina Silver Cross.

Nei primi tre anni di vita, ogni bambino consuma 5.000 pannolini. Ogni giorno, in Italia, se ne buttano 6 milioni. Per produrre i 18 miliardi di pannolini usa e getta utilizzati ogni anno in tutto il mondo, si usano 16 miliardi di litri d’olio, 82mila tonnellate di plastica e 1,3 milioni di tonnellate di polpa di legno (per la cellulosa). Da poco si sta tornando ai pannolini in tessuto, rigorosamente biologico, riutilizzabili più volte: 15 euro è il costo settimanale della lavanderia per pulirli.

Dal luglio scorso le mamme del comune di Concesio, in provincia di Brescia, ricevono gratis un kit con 3 mutandine e 24 pannolini di cotone lavabili. Finora hanno aderito al progetto ”Pannolino amico” quasi tutte le mamme del comune (90 su 92) le quali, in un diario in cui annotano i dati sull’esperimento, dicono che ci vogliono solo 3 minuti al giorno per gestire i pannolini di stoffa. I pannolini usa e getta, corresponsabili dell’aumento di dermatiti e della crescita del tasso di infertilità maschile, impiegano circa 500 anni per decomporsi e costituiscono il 15% di tutti i rifiuti non riciclabili.

Paola Maugeri, conduttrice tv. «Ecomamma», continua ad allattare il figlio di 2 anni e 4 mesi, l’ha cresciuto con pannolini lavabili e senza passeggino, ma pur di tenerlo sempre con sé gli ha già fatto prendere 44 aerei.

Da febbraio 2009 i prezzi del latte e dei suoi derivati sono aumentati dell’80%, primo fra tutti il latte in polvere.

Costo per l’allattamento con latte in polvere nei primi cinque mesi di vita in Alto Adige: 722 euro, comprando il prodotto più caro. In Austria: 160,48 euro.

«Non c’è per nessuna comunità investimento migliore del metter latte dentro ai bambini» (Winston Churchill).