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 2010  marzo 07 Domenica calendario

IL MORALISTA DISINCANTATO

Ho conosciuto Flaiano in un primaverile o autunnale pomeriggio di sole e rimasi insieme a lui la mattina seguente, andando a zonzo per Parigi di bar in bistrò assieme a Elio Petri e a Daniel Antelme – uno scrittore giovane ed estroverso, molto grasso, allora famoso per aver scritto La permission che era un romanzo-cronaca sulla licenza a Parigi di un gruppo di giovani soldati delle truppe francesi in Algeria, edito in piena guerra (ne voleva fare un film Resnais, lo pubblicò in Italia Feltrinelli). Eravamo nel 1965, imperava De Gaulle e la lacerazione algerina era cosa recente. Io vivevo a Parigi ed ero nella redazione di «Positif», e con Petri avevo già avuto qualche contatto. La sera fummo tutti a cena da un amico di Flaiano, uno scrittore pugliese arenato a Parigi da anni, Enrico Panunzio, la cui moglie gestiva una libreria all’uscita del metrò Luxembourg, proprio di fronte ai giardini. La sera tutti loro, meno io e Pierrette, vennero raggiunti da Zavattini, anche lui a Parigi, che li portò – mi dissero il giorno dopo – in certi locali privati di spettacoli osés... (Petri aveva girato tempo addietro senza firmarlo e con altri uno dei molti film pseudo-documentari sulla vita notturna della città, Nudi per vivere ). Ero giovane e un po’ me ne scandalizzai, ma il racconto di Flaiano sulle curiosità zavattiniane mi sembrò una sorta di critica implicita del neorealismo e del suo profeta. Flaiano e Petri, che non so perché mi voleva bene, ricambiato, nonostante fossi spesso feroce con i suoi film, erano a Parigi per promuoverne appunto uno, La decima vittima, tentativo curioso e sballato di mischiare fantascienza e commedia all’italiana. Con Flaiano tentai di parlare del suo libro che più mi piaceva (e mi piace), Tempo di uccidere, nella cui gestazione volevo sapere quanto avesse pesato la lettura di Lo straniero.
Mi disse ridendo, ma chiaro e tondo, che non aveva voglia di parlarne, che non aveva voglia di parlare di letteratura e di cinema ma solo di godersi quel pomeriggio vitellonesco, guidati da Antelme come in una nuova ma rilassante licenza.
Non ho più rivisto Flaiano, ma dopo la sua morte sono stato spesso vicino a Rosetta, la vedova, tra Roma e Lugano, e mi chiedeva consigli editoriali. Si era trasferita a Lugano perché lì viveva in un istituto la figlia handicappata. Conservo con devozione l’opuscolo che fece stampare per la figlia, con un breve testo di Flaiano del 1960, che la adorava, scritto per lei: Cristo torna sulla terra ... La base non era diversa da quella del Marziano a Roma: Cristo scende a Roma ed è assalito da fotografi e cacciatori di autografi,da un’umanità varia, normale, disdicevole, predica dalla televisione e prima di tornarsene al cielo «sanò vari nevrotici, convertì un prete. Un uomo gli condusse una figlia malata e gli disse: " Io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare"». Secondo Rosetta, l’amicizia con Fellini si era incrinata prima degli screzi per
Otto e mezzo , di cui Fellini si attribuiva, da regista, una paternità più grande del giusto (Flaiano sapeva bene che questo faceva parte del gioco, che questo era il destino degli sceneggiatori; secondo Tonino Guerra, i ricordi di Amarcord sono per il 70 per cento suoi e non di Fellini, ma il film, geniale, è di Fellini e proprio di Fellini). Era accaduto quando lei e Ennio avevano portato la figlia a Fregene invitati da Fellini e Fellini, che nei film ha sempre dimostrato interesse e simpatia per i diversi, handicappati, ritardati, fu vistosamente imbarazzato dalla presenza della ragazza e se ne tenne lontano, al contrario del Cristo del racconto.
Non fu un uomo sempre divertente e spiritoso, Ennio Flaiano, come può dimostrare un’attenta lettura dei suoi scritti.Il suo moralismo nasceva da una grande insofferenza per l’ipocrisia delle convenzioni sociali, era un moralismo disincantato, sofferto. Questo maestro di ironia, dallo sguardo acutissimoe dalla battuta affilata, possedeva come tutti i grandi moralisti la rara dote dell’autoironia. E se ha fatto e scritto sull’Italia e sugli italiani osservazioni lucide e spietate, esse nascevano da un amore deluso, che credo sia stato fortissimo. Senza sapere che era lui a sceglierle, le fotografie che pubblicava «Il mondo »furono per un’intera generazione un approccio all’Italia, un modo di conoscere gli italiani che mescolava amore e distanza, curiosità affetto giudizio. E sarebbe interessante confrontare oggi, con il senno del poi, il suo tipo di moralismo con quello di altri critici amanti dell’Italia ma esigenti nei suoi con-fronti, avviliti dalle sue viltà e dalla sua ignavia, come Brancati, come Moravia. Possiamo ripetere all’infinito le battute di Flaiano, ma non dovremmo dimenticare che riguardano anche noi che le citiamo e le ricordiamo. Il nostro riso o sorriso non può che essere, oggi, amaro, come quello di Flaiano e forse di più.