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 2010  marzo 07 Domenica calendario

NELLE CITT L’IPOTECA DEI DEBITI

Il debito pubblico locale è come il colesterolo; c’è quello buono, che fa circolare nell’economia le proteine degli investimenti, e quello cattivo, che ingolfa il sistema con bilanci zoppicanti, imprese in attesa di pagamenti che non arrivano e ipoteche su ogni possibilità di programmare. A Roma e a Londra, per esempio, il debito comunale viaggia intorno ai 12 miliardi, e la differenza non è tanto nella divisa (euro il primo, sterline il secondo) ma nella natura del rosso. A Londra è servito per affiancare i ministeri negli investimenti sul territorio, ed è coperto dal governo centrale; a Roma si è rivelato in tutta la sua estensione nel giugno del 2008, in una vicenda simil greca di finanziamenti avviati ma non coperti, partite «non visibili» ma reali, al punto che a quasi due anni dalla scoperta la Ragioneria generale dello stato è ancora impegnata nei conti per individuare la cifra ufficiale (si veda anche Il Sole 24 Ore del 4 marzo).
Nella partita tra il debito buono e quello cattivo, inutile dire che la gelata dell’economia finisce per alimentare quest’ultimo. Il fenomeno, per ora, è meno plateale rispetto alle cifre impazzite spuntate nei conti pubblici nazionali di quasi tutta l’Europa (nel grafico il debito locale e quello della pubblica amministrazione nei principali paesi), ma in questo caso la visibilità non è solo questione di dimensioni: il fatto è che, soprattutto in Europa, i bilanci degli enti territoriali si reggono sui trasferimenti dal centro e su un paniere fiscale, spesso legato in buona parte agli immobili, che hanno tempi più lunghi per avvertire gli effetti della frenata globale. «In Spagna – riflette per esempio Fabio Vittorini di Dexia Crediop, la banca specializzata nella finanza pubblica e di progetto – lo scoppio della bolla immobiliare ha fermato molti cantieri facendo cadere entrate che gli enti locali avevano messo in previsione». Ma accanto a questo effetto di prospettiva comincia a verificarsi, anche in Francia e in Italia, un’erosione dei pilastri consolidati delle entrate locali: per rimanere nel nostro paese, voci importanti come gli oneri di urbanizzazione per i comuni, le imposte sull’auto per le province e l’Irap per le regioni cominciano a cedere il passo.
Per le addizionali legate all’Irpef la situazione almeno per ora è più tranquilla, e anche una flessione nei redditi arriverebbe in comune e in regione con un anno di ritardo.
Per veder correre più in fretta il calendario bisogna spostarsi negli Stati Uniti, dove la crisi è iniziata prima e soprattutto il federalismo "spinto" non mette fra il ciclo economico e i bilanci degli enti locali i filtri che sono normali in Europa. I racconti che farebbero tremare le vene ai polsi agli amministratori di casa nostra sono ormai un’antologia, basta scegliere. Nella Detroit desertificata dalla crisi industriale per far rinascere la città (e i conti delle sue istituzioni) c’è anche il progetto di una rivoluzione verde che trasformi la ex capitale dell’auto nella «più grande fattoria urbana al mondo» (si veda Il Sole 24 Ore del 9 dicembre). Mentre si immagina il futuro, però, c’è da far quadrare il presente e l’impresa non è facile. Per tenere in piedi il bilancio c’è in cantiere una nuova obbligazione da 250 milioni di dollari ma Detroit, la città americana più grande con un rating «non investment», martedì scorso ha parlato chiaro agli investitori spiegando che in caso di un peggioramento ulteriore della situazione «gli obbligazionisti non dovrebbero attendersi il diritto di pagamento». I voti sulla sostenibilità del debito locale, del resto, sono in ribasso in tutti gli Usa: il sindaco di Los Angeles Antonio Villaraigosa, per esempio, ha appena annunciato il taglio di mille dipendenti e l’accorpamento delle strutture, ma la manovra lacrime e sangue non ha commosso Standard & Poors, che ha tagliato il rating della città ad AA-.