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 2010  marzo 06 Sabato calendario

GLI UNIVERSITARI E IL BATTAGLIONE SCOMPARSO

Ma ve lo vedete oggi un professore universitario camminare per strada tra ali festanti di studenti che gli gettano ai piedi fiori e foglie di alloro e petali di rosa venerandolo come una rockstar? Eppure così andava, nel 1848, a Silvestro Centofanti. Insegnava storia della filosofia alla «Sapienza» di Pisa, era così mingherlino che i suoi ragazzi lo avevano ribattezzato «il volatile» perché un colpo di vento poteva portarselo via ma quando parlava dell’ Italia, e Dio sa quanto parlasse dell’ Italia, aveva la forza schiumante di un torrente in piena. Per il provveditore Giulio Boninsegni, un moderato che sotto sotto però lo proteggeva, era un «tipico idealista vivente in un mondo di astrazioni con fantasia pronta, vivace e in sommo grado infiammabile». Quel che è sicuro è che con le sue lezioni sulla patria («Ed ella viveva! Viveva nella coscienza delle sue glorie, nell’ ingegno dè suoi figli, nello splendore delle sue lettere, nella santità del suo diritto, nel sangue dei suoi martiri, nelle necessità dell’ umano incivilimento, nei decreti della provvidenza, nel nome fatale di Roma, nell’ anima di Pio IX!») incendiava non solo i suoi universitari ma tutti i cittadini che affollavano la sua aula presentandosi all’ alba per trovare un posto. E quando arrivò la notizia che sui campi di Lombardia si stava «facendo l’ Italia», cadde come una torcia accesa sulla paglia. Spingendo due terzi degli iscritti (due terzi!) a partire volontari. Trecentottantanove su 621, furono quei ragazzi che si precipitarono col Battaglione Universitario pisano verso quell’ avventura che si sarebbe tragicamente chiusa in un bagno di sangue a Curtatone e Montanara. Il quadruplo di quanti si sono laureati l’ anno scorso in storia contemporanea, disciplina che comprende «anche» il Risorgimento: 109. Per non dire dei professori: partirono in una trentina quella volta, da Pisa, con la pancetta da borghesi e gli occhialetti a pince-nez, alla testa dei loro ragazzi. Bene: provate a cercare oggi nella banca dati del Comitato per la valutazione del sistema universitario utilizzando le parole chiave «Storia del Risorgimento». Escono 9 insegnamenti. Su 171 mila. Lo zero virgola zero zero cinque percento. C’ è chi allargherà le braccia con la rassegnazione indifferente con cui si assiste all’ estinzione di un coleottero della Papuasia, chi scuoterà la testa sconfortato (pochi, a occhio e croce) e chi addirittura esulterà sognando una fioritura di cattedre di epistemologia padano-celtica ma i fatti sono fatti: la storia dell’ Unità, l’ unica epopea che avrebbe potuto essere condivisa dall’ intero popolo italiano, è ormai pressoché scomparsa non solo dalle scuole elementari ma anche dall’ Università. Premessa: i numeri vanno presi con le pinze perché la banca dati del ministero non viene troppo scrupolosamente aggiornata da tutti gli atenei. Anzi, alcuni sono così riottosi all’ idea di confessare on line che certi corsi o certe sedi distaccate hanno solo un paio di studenti o neppure quelli, che preferiscono «dimenticarsi» di tenere in ordine i numeri riservandosi di elevare indignatissime proteste alla prima denuncia giornalistica contro i «corsi fantasma». Detto questo, il panorama è sconcertante. Quei 109 laureati specialisti in storia contemporanea (uno per provincia!) sono poco più di un terzo dei 292 neo «teorici della comunicazione», meno di un terzo dei 358 neo «filosofi teoretici, morali, politici ed estetici», un quarantesimo dei 4.319 laureati in legge, un cinquantesimo dei laureati in medicina. Più rari di loro sono solo certi specialisti come i laureati in storia antica: 25. Poco più che uno per regione. Si dirà: ovvio, quante possibilità di trovare un posto di lavoro ha un giovane dottore in storia del Risorgimento? Meno che di fare sei al Superenalotto. Ma i conti non tornano lo stesso: hanno forse più spazio sul mercato gli psicologi? Eppure nel 2008 se ne sono laureati addirittura 3.096. Trenta volte di più. E allora? L’ impressione, sgradevole, è che il Paese sia sempre meno interessato a ricordare il suo passato. Cosa che si traduce automaticamente in una perdita di identità. Basti vedere la casella dei laureati in Lingua e cultura italiana: 88. Uno ogni 16.672 studenti iscritti alle varie università della Penisola. Sconfortante. Va da sé che, parallelamente, si avviano verso l’ estinzione i professori. Sapete quanti docenti di storia contemporanea ci sono nei nostri atenei? Nel 2009 erano 515, l’ 8 per mille di tutti i 62.709 docenti di ruolo. Negli ultimi dieci anni, durante i quali le università si sono moltiplicate abbuffandosi di cattedre, il numero complessivo degli insegnanti (ordinari, associati, ricercatori...) è salito di oltre 11.500 nuovi docenti. Bene: quelli dediti alla storia contemporanea, neppure sufficienti a rimpiazzare quanti via via andavano in pensione, sono stati 80. Solo per fare un paragone: contemporaneamente i professori di una disciplina come «Sociologia dei processi culturali e comunicativi» sono passati da 170 a 297, con un aumento del 75 per cento. Angelo Varni, ordinario a Bologna, confessa: «A insegnare storia del Risorgimento siamo sempre di meno. In questa università sono rimasto solo. Il mio corso ha una cinquantina di iscritti, ma quelli che seguono con regolarità sono quindici, forse venti. Il bello è che quasi la metà di loro sono stranieri, e questo succede tutti gli anni». Metà dei professori di storia contemporanea insegnano in dieci atenei, un terzo in soli cinque (Roma Sapienza, Torino, Bologna, Siena e Firenze) su 95 esistenti. «Non si può negare che ci sia un progressivo affievolimento dell’ interesse per la storia dell’ unità - dice Giuseppe Trebbi, docente a Trieste - . Scontiamo ancora oggi gli anni Settanta, quando il Risorgimento veniva attaccato da destra e da sinistra. Diciamo la verità: quel periodo della storia patria aveva molte debolezze. Ma si poteva salvare, ad esempio, la tradizione della cultura liberale legata a personaggi come Cavour. Solo che nel momento in cui l’ Italia era spaccata fra cattolici e comunisti quegli ideali non erano molto popolari. Poi ci si è messa anche la Lega e addio...». Gli studenti di Storia contemporanea a Trieste, e parliamo di una città che più di altre palpita d’ amor patrio («Le ragazze di Trieste / cantan tutte con ardore / O Italia, o Italia del mio cuore, / tu ci vieni a liberar!») risultano essere 26 spalmati su tre corsi, uno dei quali con 6 iscritti. A Venezia sono 42 sparpagliati in sette corsi dei quali neppure uno arriva a 10 studenti e tre ne hanno appena 3. Alla Sapienza di Roma, la più grande università italiana, sono 138 cioè uno ogni 739 iscritti complessivi. A Bologna 87, a Cagliari 30, a Chieti-Pescara 27, a Lecce, 19. Come siano «coriandolizzati» non si sa. Per non gettare sale sulle ferite dei «corsi fantasma» con un solo immatricolato la banca dati ministeriale scrive pietosamente a pié di pagina: «Alcuni risultati potrebbero essere omessi in ottemperanza alle leggi sulla privacy». Fatto sta che la somma finale è di 923 studenti di storia contemporanea su 235.375 iscritti alle «specialistiche» e 1.475.069 studenti in totale. Tanto per capirci: è interessato a conoscere il passato più recente, dal quale è nata la realtà in cui viviamo, un giovane universitario su 1.598. Se è vero che la storia è maestra di vita, stiamo freschi. Il dito nella piaga l’ aveva già messo nel 1961 Rosario Romeo, in occasione del centenario dell’ Unità, attribuendo ai due principali partiti, la Dc e il Pci, la tiepida accoglienza riservata all’ evento. L’ Italia delle forze cattoliche e marxiste uscita dal secondo conflitto mondiale, diceva, era «rimasta in gran parte estranea e nemica» all’ Italia liberale. Non che comunisti e democristiani avessero ancora «il vecchio volto antirisorgimentale» ma certo «ideali ed esigenze rappresentati da queste forze sono cosa nuova e diversa rispetto alla tradizione liberale risorgimentale». Umberto Levra, che come presidente del Museo del Risorgimento e docente dell’ omonima materia sulla cattedra di Torino che c’ è dal 1906 e ha ospitato studiosi quali Walter Maturi e Alessandro Galante Garrone, si sente una specie di ultimo dei Mohicani, vola più basso spiegando che purtroppo è peggio: una faccenda di baronie. «Capisco Romeo, l’ ala liberale di cui faceva parte ne fece le spese. Ma la verità è che le celebrazioni del 1961 sono state forse il momento più alto dell’ unità d’ Italia. Si era nel pieno del boom economico. Si stava preparando il centrosinistra. Ed era arrivata la televisione. La memoria pubblica del Risorgimento, l’ attenzione per quel periodo storico ha subìto alti e bassi. Ma fino agli anni Ottanta è stata discreta». Poi? «Poi la storia contemporanea si è fagocitata tutto. Se all’ università non ci sono più cattedre di storia del Risorgimento per me è una questione che ha a che fare più con gli interessi dei professori che non della società». Per non dire del Cnr, cioè del massimo organismo pubblico della ricerca italiana. Ha 107 istituti, raggruppati in 11 dipartimenti. Il più corposo, con 15 strutture, si chiama: «Identità culturale». C’ è l’ istituto che studia «la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno» naturalmente «con ampi riferimenti alle origini medioevali e rinascimentali e agli sviluppi contemporanei». Quello «per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee». Quello di «storia dell’ Europa mediterranea» che indaga sul mare come cerniera con «i Paesi di cultura ebraica e musulmana». Quello di «studi sulle società del Mediterraneo» chiamato a «svolgere attività di ricerca, di valorizzazione, trasferimento tecnologico e formazione inerenti studi specialistici e multidisciplinari sulle società del bacino mediterraneo dell’ Età moderna e Contemporanea». O infine quelli di «studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie Massimo Severo Giannini» o ancora di «linguistica computazionale Antonio Zampolli». E il Risorgimento? Zero virgola zero. Non se la sarebbe mai aspettato, un Paese così, Alberto Bechelli, che morì a venti anni a Curtatone recitando con un filo di voce «All’ Italia» di Giacomo Leopardi: «Nuda la fronte e nudo il petto mostri / Oimè quante ferite / Che lividor, che sangue...» E come lui non se lo sarebbero aspettato tutti quei ragazzi che il 22 marzo 1848, formato il Battaglione Universitario, si ritrovarono nel cortile della Sapienza per prendere insieme, felici, il treno per Lucca da dove avrebbero proseguito a piedi fino a quella campagna appena a sud-ovest di Mantova dove in tanti avrebbero perduto la vita. Occorre rileggerla, la storia di quella marcia raccontata da Giuseppina Rossi nel saggio «1848. Dalla Sapienza al Campo di Lombardia». Erano poco più che bambini (solo a fine 1844 «era stato decretato che, dall’ anno accademico 1845/46 non sarebbe stato consentito di presentarsi all’ esame ai ragazzi inferiori ai 15 anni») alcuni di quei volontari pazzi d’ amore per l’ Italia. E dopo avere esultato per il via libera del Granduca di Toscana alla Guardia Universitaria, levato i calici in onore del Gioberti, divorato tutti i giornali che parlavano delle piazze in rivolta in tutta l’ Europa e fatto qualche rapida esercitazione militare, non vedevano l’ ora di partire intonando l’ aria belliniana provata tante volte al «Caffè dell’ Ussero»: «Suoni la tromba intrepido / io pugnerò da forte: bello è affrontar la morte gridando libertà...». Indro Montanelli scriveva con affettuosa ironia di suo prozio Giuseppe, detto il «cacalibri»: «In realtà ce n’ è uno solo degno d’ esser ricordato, e tuttora godibilissimo: le "Memorie". Fu lo scultore Romanelli ad attribuirgliene tanti perché , dopo aver costruito la statua, si accorse che tentennava, e allora gliene mise una pila sotto il sedere per fargli da supporto». Questo tentativo di tenere insieme libri e schioppi, pensiero e azione, fu tuttavia l’ aspetto più interessante, commovente e tragico della spedizione di quegli «scolari» (così venivano chiamati, allora) trascinati dai loro «prof.» come appunto Montanelli, che lasciò scritta tutta l’ emozione provata nella lunga marcia di avvicinamento attraverso le valli appenniniche e le campagne emiliane verso la bassa mantovana: «Al nostro attraversare i paesetti, le campane suonavano a festa, piovevano fiori sulle baionette luccicanti al sole di primavera». E’ difficile parlare del Risorgimento come di una forzatura elitaria di un gruppetto di massoni del tutto estranei alla popolazione davanti alle testimonianze di quei ragazzi che, dopo essersi fatti cucire spesso le uniformi a proprie spese, erano partiti verso i campi di battaglia senza immaginare cosa fossero davvero il sangue, la morte, le gole squarciate, i cavalli terrorizzati in fuga tra le esplosioni. «In un luogo detto Terra Rossa ci fecero trovare caffè e latte per tutto il Battaglione - scriveva alla zia Caterina Adolfo Martini -, ed io, come addetto allo Stato Maggiore, ho mangiato con l’ ufficialità e ho bevuto sei tazze di caffè e latte e le ho sciugate con non so quanti biscotti; oltre di questo c’ era del salame, caci secchi...». Il governo toscano, come scrisse nelle sue memorie Gherardo Nerucci partito col fratello Neruccio, sperava si trattasse per quei ragazzi eccitati di «una semplice passeggiata da sbollorargli le velleità marziali, sperimentare le marce e il dormire sulla paglia». Le mamme scrivevano ai figlioli in cammino lettere piene di apprensione: «Ieri ti mandai un fagottino per mezzo della Cancelleria dell’ Università, contenente della biancheria...». Il ministro dell’ interno del granducato, Cosimo Ridolfi, raccomandava al colonnello Cesare De Laugier di lasciar proseguire verso il fronte solo gli scolari che avevano «l’ annuenza per iscritto dei loro genitori o tutori». I ragazzi rispondevano con messaggi di addolorata indignazione come quello di Raffaello Luti: «Intendo l’ angoscia di una madre e di una padre, il pensiero mi stringe l’ animo e mi adiro col mio destino, che non mi diede genitori simili a quelli che scrivono ai figli: "Non tornate a casa se non onorati; tutto sacrificate alla Patria". Però se gli altri seguitano col conforto della famiglia, io, col disconforto di essa, ho un merito doppio, peno doppiamente». Diversi si scoraggiarono alle prime fatiche. E tornarono indietro obbedendo a mamma e papà e tirandosi addosso il disprezzo di quelli come Nerucci: «ben cinquanta militi del Battaglione si erano prudentemente ricondotti a Pisa a zonzonare Sotto Borgo, a deliziarsi dei rintocchi del campano e a mangiar cèe». Cioè la neonata di pesce. Gli altri, decisi a congiungersi con gli scolari senesi, andarono avanti. Con in testa Ottaviano Fabrizio Mossotti, un professore di fisica celeste con la barba alla capitano Achab, non più giovane, ignaro d’ armi, che però arrivò ad assumere il comando col ruolo di maggiore e buttarsi fin dentro la battaglia dove, avrebbe ricordato uno degli ammiratissimi allievi, Amerigo Lecci, ritto fra le pallottole «pareva che studiasse le parabole dei razzi, gingillandosi a rabescare con la punta della spada». O Giovanni Battista Giorgini, che aveva trent’ anni, insegnava diritto, aveva sposato la figlia di Alessandro Manzoni e le scriveva che no, carissima Vittorina, non poteva proprio tornare a casa: «Finché c’ è un barlume di speranza di poter condurre questi giovani a dire almeno una mezza parolina toscana all’ Austria, sento che nessuno sarebbe in grado di potermi dar la forza di fermarmi». E ci arrivarono, quegli scolari, a dire una parolina all’ Austria. Dopo essere stati tenuti di riserva sperando non dovessero servire, giovani e inesperti com’ erano, furono buttati dentro nel momento peggiore dello scontro. Contro soldati molto più esperti, molto più duri, molto più numerosi. Fu una mattanza. Ma riuscirono, incredibilmente, a frenare l’ irruzione nemica. Consentendo all’ esercito piemontese di riorganizzarsi e vincere il giorno dopo a Goito. Il giorno dopo Gerardo Nerucci scriveva alla madre: «Sono vivo per miracolo! Le bombe e le granate mi scoppiavano vicino, le palle fischiavano da ogni lato. Dio non ci ha voluto morti...».
Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella