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 2010  marzo 07 Domenica calendario

STORIA DEI TRENI - PARTE I

• La nascita della prima locomotiva - Durante la Rivoluzione Industriale nel Regno Unito, la domanda del carbone era alta ma i mezzi a disposizione per portarlo in superficie erano totalmente inesistenti. L’uomo delle miniere dopo aver lavorato più di 12 ore al giorno non riusciva a tirar fuori i carri pieni di carbone e la necessità di meccanizzare il trasporto era sempre maggiore.
L’inglese George Stephenson, figlio di un operaio, fin dall’età di sette anni lavorò come aiuto fuochista in una miniera di carbone.
Studiò in una scuola serale e dimostrò fin dall’inizio un interesse notevole per la meccanica; era così bravo che fu in grado di riparare una macchina a vapore che nessuno era riuscito a mettere in funzione!
Nel 1814 costruì la sua prima locomotiva a vapore, la Blucher, destinata ai servizi di miniera.
Nel 1825, quando venne inaugurata la ferrovia da Stockton a Darlington, costruì Locomotion, una locomotiva a vapore che raggiungeva circa 19 km/h ed era in grado di trainare:

1. un convoglio di 12 carrozze di 6,5 m. l’una, cariche di carbone;
2. una diligenza adattata alla ferrovia che chiamò Experiment;
3. altre 21 carrozze merci con panche ove potevano trovar posto ben 450 persone.

L’8 ottobre 1829, Stephenson presentò la Rocket ad una manifestazione per la scelta della locomotiva a vapore più efficiente.

• La nascita della prima ferrovia italiana - Nella prima metà del 1800 il Regno delle Due Sicilie, nonostante fosse il più esteso degli stati delle penisola, era comunque dipendente dal predominio industriale e tecnico straniero. Il sovrano Ferdinando II di Borbone avviò, quindi, un processo di industrializzazione di cui lo sviluppo delle strade ferrate fu uno degli aspetti salienti.
Il 3 ottobre 1839 fu inaugurato il tratto Napoli – Gragnaniello (frazione di Portici – NA) della linea Napoli-Castellamare-Nocera, la prima linea ferroviaria costruita in Italia.
La locomotiva che inaugurò l’omonima linea fu battezzata ”Vesuviana”, montata a Napoli con pezzi costruiti e progettati nel Regno Unito sulla base della Racket, era capace di raggiungere circa i 60 km/h. Il treno (inteso come complesso di carrozze) inaugurale della storica linea Napoli – Gragnaniello fu costruito dagli operai delle F.S. di Firenze nel 1939 in occasione del centenario della prima linea ferroviaria italiana.
Per l’impossibilità a reperire i disegni tecnici della locomotiva Vesuviana gli operai di Firenze furono costretti a riprodurre la locomotiva Bayard (eccola qui sotto - foto scattata nel Museo di Pietrarsa, vedi cartella Immagini di Treni - 07) che entrò in esercizio sulla Napoli – Gragnaniello solo dopo alcuni mesi dall’inaugurazione della linea.
Il 6 novembre 1840, Ferdinando II emanò un decreto per l’acquisto di un suolo, posto al confine Napoli – Portici sul quale impiantare un nuovo Opificio. Il luogo, anticamente detto Leucopetra, dopo l’eruzione del Vesuvio del 1631 era stato denominato Pietrarsa. Le prime 7 locomotive costruite a Pietrarsa con materiali inglesi furono chiamate: Pietrarsa, Corvi, Robertson, Vesuvio, Maria Teresa, Etna, Partenope. Nel 1841 fu cambiato il progetto del tratto Gragnaniello – Nocera Inferiore della Napoli-Castellamare-Nocera che consisteva nel far diventare Castellamare una stazione terminale e non di transito, come da progetto, perché il territorio che intercorre tra Portici e Castellamare e pieno di colline e la costruzione di gallerie per superare tali ostacoli era indispensabile ma costosissima; allora un giovane ingegnere partenopeo avanzò la proposta di raggiungere la città termale da Torre Annunziata e il sovrano Ferdinando II accettò.
Il 20 maggio 1844 fu inaugurata la linea Gragnaniello – Nocera Inferiore con la locomotiva Bayard e successivamente, nel 1846 fu portata a completamento anche la Torre Annunziata – Castellamare di Stabia (Non abbiamo trovato Castellamare e neppure Nocera Inferiore, ci siamo aggiustati con Nocera Superiore).

• La ferrovia italiana dal 1809 al 1905 - Lo sviluppo delle ferrovie italiane dopo il 1839 è intimamente legato alle vicende politiche della Nazione.
Dopo il primo tratto da Napoli a Portici inaugurato nell’ottobre del 1839, si aggiungevano, meno di un anno dopo, il 18 agosto 1840, i 13 km della Milano-Monza sulla quale la locomotiva Lombardia inaugurava la Imperial Regia Privilegiata Strada di Ferro.
Nel 1845, invece, veniva inaugurata nel Veneto il primo tronco Padova-Vicenza preludio del grande progetto della Milano-Venezia, cui si diede inizio due anni più tardi con i 28 km del tratto Padova-Mestre.
Nel frattempo anche nel Granducato di Toscana, il 14 marzo 1844, fu inaugurato il primo tronco ferroviario da Livorno a Pisa al quale seguì, il 3 febbraio 1848, l’apertura all’esercizio del tronco Firenze-Prato in occasione della quale fu costruita la stazione di Firenze detta:
Maria Antonia, in onore della Granduchessa di Toscana moglie di Leopoldo II.
Nello Stato Pontificio, intanto, finché aveva vissuto Gregorio XVI, le ferrovie erano state considerate opera diabolica; salito al trono (nel 1846) Pio IX, papa liberale, fu costruita la Roma-Frascati, linea senza importanza commerciale, alla quale seguì la Roma-Civitavecchia concessa alla Società delle Ferrovie Romane che ebbe in seguito anche la concessione della Roma-Ceprano, della Roma-Ancona e della Ancona-Bologna.
Il 24 settembre 1848 anche nel Regno di Sardegna fu aperto all’esercizio il primo tronco di 8 km da Torino a Moncalieri appartenenti alla linea Torino-Genova e fu proprio quest’ultimo stato a dare in seguito il maggior impulso allo sviluppo delle prime ferrovie della penisola. Negli anni successivi vi fu tutto un fiorire di iniziative locali finalizzate alla costruzione di nuove strade ferrate che, all’indomani dell’Unità d’Italia, raggiunsero 2.186 km di estensione così distribuiti:

* 850 km nell’ex Regno di Sardegna;
* 607 km nel Lombardo-Veneto in parte ancora soggetto all’Austria;
* 323 km nell’ex Granducato di Toscana;
* 132 km nello Stato Pontificio;
* 149 km nei paesi dei cessati Ducati di Parma e Modena
* 125 km appena nell’ex Reame di Napoli.

[La rete ferroviaria italiana nel 1865 in Immagini cit 09]

Sin dai primi anni dall’Unità d’Italia nacque così l’esigenza di ridurre il numero delle concessioni e di accorpare la gestione delle linee ed in virtù di ciò si costituirono le società SFAI (Strade Ferrate dell’Alta Italia), SFR (Strade Ferrate Romane) e la Società delle Strade Ferrate Vittorio Emanuele che comprendeva anche la Rete Sicula e Calabra. Successivamente, nel 1885, furono accorpate anche le società rimaste escluse in precedenza e l’esercizio ferroviario italiano fu tale da risultare ripartito fra tre grandi società: la RM (Rete Mediterranea), la RA (Rete Adriatica) e la già citata SFR.
A partire dall’Unità d’Italia lo sviluppo della rete ferroviaria ebbe in quel periodo un impulso straordinario tanto che nei cinque anni successivi la strada ferrata in Italia raddoppiò la sua estensione raggiungendo circa i 5.000 km. Intanto le grandi opere andavano moltiplicandosi permettendo notevoli abbattimenti delle distanze e quindi dei tempi. Il primo esempio si ha con la solenne inaugrazione, il 17 settembre 1871, del traforo del Frejus da Bardonecchia a Modane al quale seguì, nel 1882, quello del Gottardo.
Nel 1875 risultano anche ultimate la Napoli-Foggia e le ferrovie delle Riviere Liguri portando a 7.464 i chilometri di ferrovie aperti al pubblico servizio.
Nel corso degli anni il materiale rotabile andò evolvendosi rapidamente con l’entrata in servizio di carrozze sempre più confortevoli ed inoltre ben presto si abbandonò la dipendenza dall’industria straniera nella costruzione delle locomotive. Nel 1854, infatti, fù presentata da parte dell’Ansaldo & C. di Genova la prima locomotiva interamente realizzata nei suoi stabilimenti. Si trattava della Sampierdarena, un prototipo della potenza di 417 HP e velocità di 65 km/h, che svolse servizio sulla Torino-Novara fino al 1900.

[La locomotiva Ansaldo Sampierdarena del 1854 raffigurata su di un francobollo del Paraguay in Immagini cit 10]

Un notevole passo avanti nell’ingegneria ferroviaria dell’epoca si ebbe, inoltre, con la diffusione dell’energia elettrica e la costruzione dei primi motori elettrici che iniziarono a prendere il posto di quelli a vapore nelle diverse industrie del tempo. Primi esempi di trasporti viaggiatori trainati da motrici ad energia elettrica si ebbero già nel 1870. In Italia, tuttavia, i primi esperimenti di trazione elettrica a corrente continua furono realizzati nel 1890 quando furono attivate la tranvia di via Flaminia a Roma (6 luglio) alimentata in serie e la tranvia Firenze-Fiesole (20 settembre) alimentata in parallelo e caratterizzate dalla captazione di corrente tramite filo aereo e ritorno sulle rotaie a tensione compresa fra gli 800 e 500 Volt. Tuttavia, nonostante i buoni esiti di tali esperimenti, per le prime realizzazioni di rilievo di linee ferroviarie elettrificate bisognerà aspettare gli inizi del ’900.
Il 1° luglio 1905, dopo lunghi anni di ricerche e dibattiti parlamentari e in uno stato di salute sempre più precario per le Società esercenti, lo Stato abbandonava le convenzioni con le società private che gestivano le reti Mediterranea, Adriatica e Sicula ed assumeva la titolarità delle ferrovie. Nascevano così le Ferrovie dello Stato e l’ingegner Riccardo Bianchi divenne il primo direttore generale confermando le brillanti doti di amministratore che lo avevano distinto nella gestione della rete Sicula. Con la nazionalizzazione delle ferrovie prendeva il via un imponente programma di rinnovamento volto al miglioramento della tecnologia e del comfort di viaggio nel quale furono coinvolte anche le aziende italiane Ansaldo e Breda.

• Storia della ferrovia piemontese. Prime proposte e prime costruzioni ferroviarie in Piemonte («I testi li abbiamo copiati da: Torino Porta Nuova Storia delle ferrovie piemontesi e L. Ballatore e F. Masi Edizioni Abete - 1988») - Nel Regno Subalpino, le prime idee e le prime indagini per la costruzione di una strada ferrata risalgono al 1826, allorché alcuni uomini d’affari genovesi, capeggiati dai signori Cavagnari, Pratolongo e Morro, formularono la prima richiesta, peraltro lasciata poi cadere, per studiare una comunicazione ferroviaria da Genova al Po.
Alcuni anni dopo vennero presentate al Governo di Torino altre analoghe richieste. In particolare, i medesimi uomini d’affari genovesi, poi autorizzati a costituire una Società, avanzarono una nuova seria richiesta per studiare il tracciato della linea da Genova al Po verso Pavia, ma solamente nel 1840 il Governo sabaudo concesse a detta Società l’autorizzazione ”ad intraprendere studi per una parte delle strade ferrate da Genova al Piemonte, e confine Lombardo”.
L’ingegnere Porro fu quindi incaricato di elaborare il progetto che, dopo essere stato rivisto e modificato dal noto ingegnere inglese Kingdom Isambard Brunel, alla fine del 1843 venne presentato all’esame dell’apposita commissione tecnica governativa, la quale esprimeva, in linea di massima, il suo parere favorevole. Ma l’anno seguente, con Regie Lettere Patenti, si decideva di fare studiare direttamente il futuro sistema delle strade ferrate del Regno, fissandone le linee generali; lo Stato, avendo ben chiaro l’uso che intendeva fare del treno, sceglieva altresì il definitivo percorso della linea in argomento determinando che:
"Il sistema delle strade ferrate dei Nostri Stati di terraferma avrà luogo colla costruzione simultanea di una strada a ruotaie di ferro da Genova a Torino per Alessandria e la Valle del Tanaro con diramazione verso la Lomellina, donde a Novara ed al Lago Maggiore.
Il punto, da cui dovrà partire detta diramazione, sarà determinato in correlazione della località che in dipendenza di accurati studi sarà prescelta per varcare il fiume Po con maggiore utilità e sicurezza.
Compiuta od intrapresa la costruzione di detta strada bipartita nella detta direzione verso Torino ed alla Lomellina, verrà eseguita la diramazione di un altro tronco che, da quello verso la Lomellìna, metta alla Lombardia nella Direzione che le circostanze saranno per consigliare più opportune".

• La ferrovia Torino-Moncalieri - Inoltre, dopo molte discussioni per decidere se le ferrovie dovessero essere costruite e gestite dai privati o dallo Stato, con Regie Patenti del 13 febbraio 1845 si stabiliva inequivocabilmente che ”la Strada Ferrata da Genova al Piemonte, con diramazione al Lago Maggiore ed alla frontiera lombarda, verranno costrutte per conto e cura del nostro Governo e a spese delle nostre finanze”.
A quell’epoca, il collegamento di Genova con Torino avveniva attraverso la strada carrozzabile dei Giovi, valico a 472 metri di altitudine fra le Valli del Polcevera e dello Scrivia, strada che con quella della Riviera, detta Cornice, fu decisa sotto Napoleone I e terminata sotto il regno di Carlo Felice.
Nel 1845 le comunicazioni di Genova con Milano erano divenute quotidiane a mezzo di diligenze. Ancora verso la metà dell’Ottocento per recarsi da Genova nelle località viciniori ci si doveva giovare di portantine e di bussole.
Il viaggio in vettura lungo la Strada Reale-Postale che collegava i due maggiori centri del Regno Sardo richiedeva da Torino a Genova circa 25 ore compreso il tempo per il cambio dei cavalli nelle Stazioni di Posta ed escluso quello occorrente per i pasti e il riposo dei viaggiatori.
Le Stazioni erano collocate ad intervalli o tappe più o meno distanziate a seconda delle difficoltà del percorso e la posizione dei centri abitati; le relative distanze erano calcolate in base ad un’unità di misura, detta posta, che in Piemonte era pari a 8 chilometri. La velocità in pianura era mediamente di 8 chilometri/ora, ma scendeva notevolmente nei percorsi montani.
II Mastro di Posta vestiva la piccola livrea di S.M. e aveva come distintivo il pelo di tasso alle briglie dei cavalli; i Postiglioni, ai quali era riservato l’uso della cornetta, avevano una divisa uniforme di panno blu con galloni d’argento, colletto e paramani di panno scarlatto, cappello tondo di cuoi
Le Stazioni di Posta erano anche alberghi o almeno osterie; in esse si potevano incontrare i Corrieri di Gabinetto del Re ed i Corrieri di Malla. che viaggiavano su veicoli leggeri a due ruote. I legni forniti dalle Stazioni dì Cambio erano di vario tipo: potevano portare ognuno, tirati da 2 a 6 cavalli, da 2 a 6 viaggiatori.
Si comprende come i viaggi fossero molto cari; è stato calcolato che il costo del percorso da Torino ad Asti (8 poste) equivalesse a 7-10 giornate di salario di un operaio qualificato.

• Nello studio del tracciato della parte montana della ferrovia per Genova, che in più punti comportava la risoluzione di notevoli problemi tecnici, il Brunel proponeva un singolare sistema di piani inclinati per il superamento del più arduo ostacolo, rappresentato dallo scavalcamento dell’Appennino al colle dei Giovi.
Nel novembre del 1845 venivano prontamente appaltati i lavori per la costruzione dei primi lotti di linea a doppio binario, lavori che procedettero alacremente a partire dal 1846. Cosicché il 24 settembre 1848, in una bella giornata autunnale, si inaugurava il primo tratto di 8 chilometri da Torino a Moncalieri.
Due giorni prima il Ministro dei Lavori Pubblici Paleocapa scriveva al Re:
Non vuolsi certamente riguardare come un grande risultato pel vantaggio del pubblico e dello Stato, lo aprirsi che si propone al presente del solo tronco di strada ferrata, che da Torino conduce a Moncalieri (...). Ma il solo atto per cui mette corso di esercizio questo primo tronco di strada ferrata convincerà il pubblico della sollecitudine con cui il governo della Maestà Vostra cercò il mezzo alle straordinarie circostanze dei tempi di promuovere indefessamente l’attivazione di questo importantissimo ramo di pubblica amministrazione, e di non trascurare, mentre si combatteva per l’indipendenza della patria, d’arricchirla di un pronto mezzo di futura prosperità.
Alla cerimonia inaugurale, avvenuta alla presenza delle Autorità, anche se alquanto contenuta e sobria, lo spettacolo offerto dal pubblico esultante che riempiva i non grandi spazi delle due modeste stazioni capitronco, fu entusiasmante.
Tali stazioni provvisorie erano state costruite molto frettolosamente e diverse cose restavano ancora da definire; gli impianti dello Scalo di Torino, ubicato in una felice posizione, oltre che provvisori, erano limitati e modesti.
In una relazione del 25 giugno 1848, l’Intendente Generale delle Strade Ferrate dello Stato, avvocato Bona, scriveva al Ministro:
II Sig. Ispettore Cavaliere Melano ha presentalo i disegni, la perizia ed il capitolato delle opere, che più preme di eseguire per lo stabilimento della stazione di Torino, rimandando le altre a tempo più opportuno.
Le opere che ora si tratterebbe di appaltare sono le seguenti, e cioè:

1. Il trasporto della Strada Reale di Nizza e di quella di Stupinigi (attuale Via Sacchi) sull’allineamento delle due contrade dei Conciatori e della Provvidenza.
2. La formazione di canali di scolo.
3. La regolarizzazione dell’area della stazione.
4. E la costruzione di sette fabbriche, non che dei muri di cinta della stazione medesima.

Le opere da farsi sono valutate nella totale somma di Lire 640.800.
Le somme assegnate nel Bilancio dell’Azienda per la stazione di Torino sono piucché bastevoli per sopperire alla detta spesa.
In realtà, il giorno dell’inaugurazione, non solo non troneggiava ancora l’imponente facciata di Porta Nuova davanti alla Piazza Carlo Felice, appena abbozzata, ma esistevano pochi binari e un modesto baraccone di legno accoglieva le fumate delle prime tre locomotive battezzate Carlo Alberto. Però, ben presto, davanti alla stazione provvisoria di Torino, lungo la Via Nizza, incominciarono a sostare le carrozze ed i primi omnibus a cavalli istituiti lo stesso anno per i collegamenti pubblici cittadini.

• Il giorno seguente all’inaugurazione fu iniziato il regolare servizio pubblico con l’istituzione di sei coppie di treni, fra le ore 7 antimeridiane e le ore 7 pomeridiane. La stampa locale non dedicò molto spazio all’avvenimento. Un giornale cittadino, due giorni dopo, così riportava la notizia: ”Ieri mattina, alle sette precise, veniva aperto alle corse pel pubblico il primo tronco di strada ferrata ormai terminato, quello da Torino a Moncalieri. Le corse durarono, alternate d’ora in ora fra le due stazioni, sino a sera, con un’accorrenza sempre crescente, di persone impazienti di fare in pochi minuti, comodamente, ed a prezzo insignificante, quel tratto di via onde Moncalieri è ormai un sobborgo di Torino”.
Le norme recitavano: ”I viaggiatori sono ammessi nelle vetture 15 minuti prima della partenza ed al segno che se ne darà colla campana”; inoltre ”si consigliano i viaggiatori a non tenersi in piedi nelle vetture ed a sortire dalle medesime, se non che dopo fermato il convoglio e dopo che gli sportelli delle vetture siansi aperti dalle guardie”.
Le cronache dell’epoca ebbero a registrare presto un incidente a Moncalieri per ”uno scontro di due convogli causato dall’anticipo dell’arrivo di uno e dal ritardo della partenza dell’altro di qualche minuto. Sessanta passeggeri riportarono ammaccature non gravi”.
Intanto, l’anno seguente, in ossequio alla sbrigativa procedura adottata, volta ad aprire al pubblico ogni singolo tratto appena terminato, entrava in esercizio il tronco da Moncalieri ad Asti e poi, nel 1850, il percorso da Asti ad Alessandria e a Novi Ligure.
E’ interessante notare come l’esercizio ferroviario venisse via via aperto senza attendere che fossero completamente eseguiti i lavori al corpo stradale, con i fabbricati delle stazioni provvisori e addirittura ancora da costruire ed in presenza anche di un solo binario.

• La ferrovia raggiunge Genova - Partendo da Torino, il primo tratto del percorso fino a Moncalieri non presentò grandi difficoltà, anche se si dovettero eseguire alcune opere particolarmente impegnative quali il lungo viadotto, detto del Mercato, ed il ponte sul Po a Moncalieri. Peraltro, l’imperativo era quello di portare rapidamente a termine i lavori.

Ad un rilievo scritto dell’Intendente Generale Bona, perché i lavori stessi non progredivano con la richiesta celerità, il direttore dei lavori, ingegnere Spurgazzi, rispondeva in data 25 giugno 1847, che ”uno spediente per ottenere un tale intento sarebbe di lavorare d’or innanzi anche nei giorni festivi fino a tanto non sia per intero collocata l’armatura dei sette archi del ponte (...) se non che per effettuarlo manca l’assenso del parroco, il quale rispose non dare un tale permesso senza un ordine emanato dal Ministro e segnato dall’Arcivescovo di Torino”.


Tale permesso veniva puntualmente accordato. Lo stesso Bona, in un’altra lettera del 4 luglio 1848, scriveva all’ingegnere Spurgazzi in merito ai lavori nella stazione di Moncalieri: ”... rimasi sorpreso dalla scarsità dei battipali e degli uomini impiegati nei lavori di fondazione della Stazione … So che tale scarsità di mezzi d’opera penda dall’avarizia dell’imprenditore (ing. Gagliazzi) il quale pretende di fissare agli operai una mercede troppo tenue rispetto a quella che si suole corrispondere in altri cantieri”.

Nella costruzione della prima parte della linea si dovettero affrontare rilevanti difficoltà per l’attraversamento della zona collinare fra San Paolo Solbrito e Villafranca. Da San Paolo a Dusino venne costruito un tratto di linea provvisoria, mentre da Dustino fino a Stenevasso si istituì un servizio di omnibus a cavalli con un percorso di circa 2.700 metri.
Questo servizio di omnibus si rivelò alquanto gravoso e penalizzante per la circolazione, per cui presto si pensò di sostituirlo, costruendo un nuovo tratto di linea provvisoria a piano inclinato per far circolare convogli ”retti nella discesa da carri-freno e rimorchiati nella salita da cavalli”; tuttavia, anche se si era ottenuto un miglioramento, l’esercizio risultò ancora ”penoso al pubblico pel tempo richiesto al tragitto, massime nell’ascesa, gravoso assai all’Amministrazione e per la spesa di manutenzione e vigilanza che su esso si richiese tanto moltiplicata, e per l’altra principalmente dei cavalli, come si è detto, impiegati nel rimorchiarlo e del personale addetto al governo di quegli animali”. Si convenne pertanto di fare subito studiare da una apposita commissione di ingegneri un tipo di trazione più economico e più sicuro, con la consulenza del famoso ingegnere inglese Robert Stephenson, figlio del più noto George, inventore della locomotiva a vapore.
Per superare l’inusitata pendenza del 26 per mille di quel tratto di linea, fu quindi studiato l’impiego di locomotive appositamente modificate che lo stesso Stephenson provvide a costruire nella sua celebre officina-inglese di Newcastle-on-Tyne. Nell’agosto del 1851 i cavalli furono sostituiti dalle nuove locomotive speciali, che ”attaccate a Villafranca ed a Dusino valgono o come potenti motori in salita o come fortissimi freni in discesa”.
Frattanto, all’inizio dello stesso anno, l’esercizio della linea era stato prolungato fino ad Arquata, con un percorso di ormai 125 chilometri; la pendenza non superava il 5 per mille, tranne un breve tratto dell’8 per mille e quello del 26 per mille del piano inclinato del Dusino. L’attivazione dell’esercizio sull’accidentata tratta da Arquata a Busalla, di 18,4 chilometri e con pendenza massima dell’8.2 per mille, venne effettuata esattamente due anni dopo, il 10 febbraio 1853, mentre l’intero percorso fino a Genova Porta Principe, lungo complessivamente 166 chilometri, fu portato a compimento con l’inaugurazione dell’ultimo tratto fra Busalla e Genova, avvenuta il 18 dicembre dello stesso anno.
All’inaugurazione ufficiale della linea del 20 febbraio 1854 parteciparono anche il Re Vittorio Emanuele II ed il Primo Ministro conte Cavour.

Un cronista presente alla cerimonia scrisse:
Lunedì 20 fu bellissimo giorno pel Piemonte. La festa dell’inaugurazione della strada ferrata, fu a Genova favorita da splendido sole. La piazza Caricamento presentava un aspetto magnifico, indescrivibile. Il numero delle persone che vi erano convenute da tutte parti era straordinario. Furono costrutte parecchie logge e tutte erano gremite. Perfino sui tetti notavasi folla di gente, né l’accesso ai tetti era accordato senza una buona mancia da 5 a 10 franchi.
Nella Piazza era la Guardia Nazionale, l’Esercito, gli allievi del Collegio Nazionale, del Collegio Civico, della Scuola di Marina. Vi fu eretta una cappella ove officiava l’Arcivescovo Monsignor Charvaz, assistito da numeroso clero, e dirimpetto una loggia per la Famiglia Reale, membri del Parlamento, del Consiglio di Stato, della Magistratura. tutti gli invitati insomma erano in logge distinte.
Il convoglio reale, composto di cinque vetture, di cui tre magnifiche. ma costrutte e ornate con molta semplicità. giunse ad un’ora e un quarto, e venne annunciato da 100 colpi di cannone- S.M, fu accolta da acclamazioni fragorose e reiterate. Quindi incominciò la funzione religiosa, che durò circa un’ora ed ebbe termine colla benedizione di sei locomotive, alle quali furono imposti i nomi di Cristoforo Colombo. Andrea Doria, Genova. S. Giorgio. Emanuele Filiberto, Torino, e colla partenza del convoglio delle merci.
A noi non ispetta descrivere le feste di Genova. Questa celebre città, che sembra sì apatica, mostrò comprendere come la strada ferrata inizii un’era nuova per il suo commercio.
Per farsene un concetto non faceva mestieri d’altro che d’essere in piazza Caricamento. Da una parte il mare, dall’altra la terra; là il piroscafo, qui la locomotiva e le rotaie di ferro, due mondi che si uniscono e si abbracciano”.
Per non ritardare l’attivazione della linea, la stazione di Genova Porta Principe venne approntata con carattere provvisorio, così come era successo per quella di Torino Porta Nuova. La costruzione del fabbricato viaggiatori definitivo venne però già iniziata lo stesso anno 1854 ed ultimata nel 1860.
L’intera linea Torino-Genova era stata subito costruita con sede a doppio binario. Le opere d’arte eseguite furono oltre centotrenta e almeno una trentina i ponti e viadotti di rilevante importanza; nella sola tormentata tratta da Arquata a Busalla furono gettati otto ponti su corsi d’acqua e perforate quattro gallerie di lunghezza variabile da 508 a 866 metri.
I lavori per la costruzione del tratto di linea compreso fra Busalla e Genova risultarono particolarmente impegnativi ed onerosi. Essi comportarono l’esecuzione di opere di notevole rilievo tecnico per l’attraversamento dell’Appannino ligure al valico dei Giovi, quali i piani inclinati già menzionati per la tratta da S. Paolo a Dusino e la famosa galleria di 3.259 metri; una lunghezza veramente eccezionale per quei tempi. Di quest’ultima ebbe ad occuparsi anche l’ingegnere belga Henry Maus, noto progettista ed esecutore di opere idrauliche e ferroviarie, del quale avremo occasione di parlare.
Di grande importanza era la scelta del tipo di trazione lungo il percorso a fortissima pendenza da Busalla a Pontedecimo. Nel tratto di rampa a più elevata pendenza, lo stesso ingegnere Maus e alcuni valenti tecnici, fra i quali gli ingegneri SommeilIer e Ruva, studiarono brillantemente nuovi originali tipi di locomotive, pure costruite dalle Officine dello Stephenson, denominale "Mastodonti dei Giovi”, costituite da due macchine accoppiate fra di loro che servirono ”al traghetto dei convogli sulla rampa del 35 per mille di cui l’eguale non si ha su altre strade ferrate esercitate con locomotive”.Su detta rampa esse erano in grado di trascinare convogli del peso di 150 tonnellate a 12 chilometri orari.
Fin dall’apertura dei primi tratti la gestione risultò molto soddisfacente; allora i convogli giornalieri della tratta Torino-Arquata, di 125 chilometri, erano normalmente costituiti da tre coppie di treni, più una coppia per le piccole velocità, che impiegavano a percorrerla tre ore e quaranta minuti.
Gli introiti aumentavano fortemente con l’estensione dell’esercizio e, dopo tre anni dall’apertura dell’intera linea, gli utili erano diventati consistenti e facevano sorgere ulteriori speranze in previsione dell’apertura della ferrovia del Fréjus.
Come innanzi già accennato, pur di attivare rapidamente le varie sezioni di linea, spesso venivano costruiti edifici provvisori. limitando gli impianti di stazione al minimo indispensabile: ciò accadde anche per la stazione dello scalo di Torino, dove gli stessi impianti, in buona parte provvisori, vennero costruiti in più riprese.
La Strada Ferrata Torino-Genova fu motivo di giustificato orgoglio per i cittadini del Regno Sabaudo; uno scrittore faceva notare che "debbe goder l’animo ad ogni buon piemontese il vedere in questa bella d’Italia compiuta la Strada Ferrata da Torino a Genova, la più grandiosa, monumentale e difficile di tutte le strade ferrate costruite e progettate non solo in Italia, ma in tutto il continente europeo. Difficoltà che parevano insuperabili furono vinto dall’arte”.

• Le stazioni - La costruzione dell’importante linea ferroviaria collegante Torino con Genova rese necessaria l’erezione di molte stazioni, sia nelle due città agli estremi della linea, sia nelle località intermedie, toccate dalla ferrovia.
A Torino, data l’urgenza, poiché si avvicinava l’attivazione della prima tratta, da Torino a Moncalieri, venne eseguita nel 1848 in fregio alla via Nizza, parallelamente ai binari. una modesta costruzione provvisoria di legno, a pianta rettangolare, ad un solo piano e con un piccolo avancorpo, la cui superficie coperta non raggiungeva 240 metri quadrati. In essa trovarono posto l’accesso dei viaggiatori, un atrio, la biglietteria, le sale d’attesa e l’alloggio del guardiano.
Il progetto era dovuto all’ingegner Spurgazzi della Direzione Lavori. L’edificio prese il nome di Imbarcadero di Genova, quasi fosse il luogo di inizio di lunghi viaggi per mare e preludesse a collegamenti con Paesi lontani.
I torinesi compresero che questa soluzione provvisoria era derivata dalla necessità di sollecitare al massimo l’entrata in esercizio di una linea di importanza capitale per lo sviluppo dell’economia piemontese e non sollevarono molte recriminazioni. Il Cibrario nella sua storia di Torino scriveva:
Conviene pure; che io rammenti l’imbarcadero della via di ferro prossima a stabilirsi vicino a Porta Nuova, perché questa via. o per meglio dire queste vie, segneranno un’epoca nuova per la patria nostra, renderanno il Piemonte centro e guida d’uno dei più estesi e più facili e più pronti commerzii, che mai sieno aperti all’ingegno e all’industria degli italiani, e; faranno soave e reverendo all’intera penisola, anzi a tutte le genti che vi parteciperanno, il nome, la sapienza e la costanza del re Carlo Alberto.
Di fronte all’imbarcadero sorsero in Via Nizza due cafés chantants alla moda parigina: il Madrid e il Lago Maggiore.
Quando venne affrettatamente inaugurato il primo tratto della linea da Torino a Moncalieri, gli impianti dello Scalo Ferroviario del Capolinea torinese occupavano una superficie molto modesta. Oltre al descritto baraccone provvisorio di legno della stazione, eretto in fregio alla via Nizza, esistevano praticamente solo alcuni binari, la rimessa del materiale rotabile e una piattaforma girevole, mentre si stava concretando il progetto per la costruzione di una tettoia di legno, lato S. Salvano, studiata dall’ingegnere Melano, per la riparazione delle carrozze .
Era quindi parso subito evidente che già all’inizio del successivo anno 1849, con l’apertura all’esercizio della sezione da Torino ad Asti, la prima stazione del capolinea sarebbe risultata del lutto insufficiente per il servizio da svolgere, servizio destinato ad aumentare progressivamente nel tempo.
Pertanto, in quello stesso anno, l’ingegnere Spurgazzi. direttore dei lavori del primo tratto di linea, che aveva costruito il baraccone provvisorio dell’Imbarcadero di Genova, per porvi rimedio progettò ed iniziò la costruzione di una seconda stazione provvisoria.
Egli eresse un fabbricato di muratura, senza pretese architettoniche, perpendicolare ai binari, che aveva quindi la sua fronte parallela a quella del fabbricato attuale, ma più avanzata verso la piazza Carlo Felice. La sua posizione si trovava infatti, all’incirca, sull’asse del corso del Re, già viale dei Platani e ora corso Vittorio Emanuele II.
Era un edificio basso, di forma rettangolare piuttosto allungata, ad un solo piano, sopraelevato rispetto al terreno circostante, della lunghezza di 60.42 metri per metri 17 di larghezza, coprente un’area di circa 1.100 metri quadrati. Esso comprendeva:
• un atrio sul fronte principale;
• la biglietteria al centro dell’edificio, con un ufficio retrostante;
• due sale di attesa, una di 1° e 2° classe e l’altra di 3° classe;
• due locali più un ufficio per i bagagli in arrivo e per la spedizione di quelli in partenza;
• infine i servizi igienici.
Verso i binari una tettoia di legno proteggeva i viaggiatori, per tutta la lunghezza dell’edificio.
Questo fabbricato viaggiatori, detto Imbarcadero di Porta Nuova, rimase in esercizio fino al 1867, allorché entrò parzialmente in funzione la nuova stazione definitiva.
Fra gli impianti dì carattere provvisorio costruiti nei primi anni di quel periodo, vi erano due grandi tettoie di legno della superficie complessiva di circa 2.770 metri quadrati, poste a copertura di altrettanti marciapiedi e binari, attestate verso il fabbricato viaggiatori e debitamente chiuse da apposite cancellate di ferro.
Passavano però gli anni ed i benefici effetti del collegamento ferroviario statale di Torino con Genova, inaugurato il 14 giugno 1853, si facevano sempre più sentire e ciò metteva in maggior risalto la mancanza di una stazione torinese decorosa e funzionale. D’altra parte, il continuo aumento dei traffici aveva portato ad ampliamenti dell’Imbarcadero, che però per il loro carattere provvisorio non erano in grado di soddisfare le accresciute esigenze Una razionale soluzione definitiva diveniva pertanto sempre più urgente.
Mentre in diverse stazioni della tratta di linea allora attivata fino ad Arquata Scrivia, quali quelle di Alessandria ed Asti, i fabbricati viaggiatori ed i principali impianti erano stati costruiti definitivi, invece nello scalo di Torino si continuò ad aggiungere impianti provvisori. Infatti, dopo la costruzione della seconda stazione, con il progressivo aumento del traffico, che cresceva parallelamente al grande sviluppo delle ferrovie piemontesi degli anni Cinquanta, proseguirono gli ampliamenti ed i potenziamenti ma le nuove costruzioni erano quasi sempre di carattere provvisorio ed economico.

• Sistemazione della piazza Carlo Felice - In seguito, tra il 1851 ed il 1855, fu completata l’antistante piazza Carlo Felice, concepita dall’architetto Lombardi e poi disegnata da Carlo Promis, valente architetto ed archeologo, con l’aggiunta degli isolati all’angolo del Viale del Re, progettati dagli architetti Frizzi e Lombardi.
A proposito della sistemazione di detta piazza, risultata alla fine più ampia rispetto al primitivo progetto, vale la pena ricordare i continui problemi che si dovettero risolvere anche durante il periodo in cui rimase in servizio l’Imbarcadero di Porta Nuova.
Il Sindaco della città di Torino scriveva dal Palazzo Municipale, addì 14 gennaio 1854. all’Intendente Generale delle Strade Ferrate che:
Portate a compimento le costruzioni fiancheggianti la piazza Carlo Felice a Porta Nuova, si fa urgente che venga detta piazza sistemata e data ad uso pubblico mediante le opere di spianamento che vi sono indispensabili, e la riduzione del suolo della medesima a quel livello che fu già studiato dal Civico Ufficio d’Arte.
Il Municipio sarebbe intenzionato di fare procedere a tale sistemazione appena cessati i più forti rigori dell’invernale stagione, ma non potrebbe dar mano all’opera senza che siano prima svelte quelle alberate di robinie che prospettano lo scalo ed i paracarri che. oltre a non potere più sussistere quando sia sistemata la piazza, sono fin d"ora di non lieve ingombro e di frequente cagione d’inciampo ai passeggeri per cui furono già inoltrate lagnanze alla Civica Amministrazione.
All’oggetto di potere attivare i lavori di sistemazione, il Sindaco sottoscritto prega il sig. Intendente Generale delle Strade Ferrate di volere disporre per lo schiantamene di dette Robinie, e delegare qualche Impiegato all’Ufficio di Costruzione che conferisca col Civico Ufficio d’Arte per concertare lo schiantamento dei paracarri i quali spettano per una parte al Municipio, ed il traslocamento dei fanali a gaz che vorranno essere scostati dal sito attuale e che sono pure di proprietà parte di codesta Amministrazione e parte del Municipio.
Trattandosi di cosa la cui esecuzione è imperiosamente richiesta dal pubblico beneficio, lo scrivente si ripromette di venir con qualche sollecitudine favorito dal sig. Intendente Generale di un cenno di riscontro.
Quest’ultimo non mancava di far rilevare che ”prima di dare le disposizioni occorrenti pello schiantamento delle robinie che prospettano lo Scalo della Ferrovia a Portanuova” la cui piantagione era stata ordinata d’accordo con il Municipio, ”se vuolsi ora distruggere quest’opera che forma un viale di più comodo accesso allo Scalo, sarebbe necessario che la Città prevedesse, in sua sostituzione, all’apposizione di marciapiedi essendo evidente che nel recarsi alla Strada Ferrata il pubblico preferisce di prendere la via più svelta e quindi più breve traversando la piazza senza percorrere il lungo porticato che la fiancheggia”. Alla successiva proposta del Sindaco di costruire un marciapiede che ”allo sbocco dei portici attraversi il Viale del Re per essere questo più sovente fangoso essendo percorso da un gran numero di carri”. l’Intendente replicava che ”la via sistemata non è sicuramente un lieve incomodo per coloro che vorranno attraversarla. Il marciapiede (...) allo sbocco dei portici in traverso del Viale del Re riuscirebbe di pochissimo giovamento perché i passeggeri diretti allo scalo continueranno ad attraversare la piazza (...); quindi col progetto della Città riuscirà incomodo agli accorrenti alla ferrata e sarà un continuo motivo di lagnanza contro il Municipio”. Dopo ulteriori considerazioni ed osservazioni, da parte del Sindaco che dell’Intendente, si pervenne alla fine ad un compromesso che contemperava le varie esigenze, dando la possibilità ai passeggeri di utilizzare temporaneamente due percorsi, mentre si andavano accelerando i lavori per il completamento della piazza.
Giunti così alla vigilia della elaborazione del progetto per la costruzione della stazione definitiva di Porta Nuova, quando Torino stava attraversando un periodo di grandissimo fervore in ogni campo, piazza Carlo Felice si avviava a fare degna cornice al nascente, imponente edificio ferroviario, trasformandosi in un bel giardino con una fontana verso l’estremità di via Roma, fontana che il 6 marzo 1859 sprizzava per la prima volta il suo potente getto d’acqua. In quello stesso periodo, recuperate, ormai da qualche decennio, parecchie aree ai limiti della città vecchia per nuovi isolati, mediante lo spianamento delle fortificazioni fatte demolire da Napoleone, furono costruiti gli innesti, sul medesimo viale del Re. delle vie Nizza. Sacchi (queste due opportunamente spostate per creare fra esse lo spazio necessario per la costruenda stazione). Lagrange e della Provvidenza (ora via XX Settembre); poi si formò tutta la parte compresa fra la Stazione ed il corso Re Umberto I. eseguendo facciate tutte eguali secondo il progetto del Promis.

• Si discute sull’ubicazione della stazione - Quando verso il 1845 si trattò di individuare la località di partenza da Torino della Ferrovia per Genova fu abbastanza facile coordinare e uniformare i pareri, generalmente concordi nella scelta della zona di Porta Nuova, situata a sud della città, che si prestava ad un comodo accesso per tutti i suoi quartieri.
Infatti, con Lettera Patente del 13 ottobre 1846 il Re Carlo Alberto, dopo aver posto in evidenza ”la convenienza di arrivare allo stabilimento, presso questa città, della stazione principale, la quale pel maggiore comodo della popolazione e del commercio deve tenersi, per quanto possibile, vicina all’abitato, e deve comporsi di diversi edifizii. per cui è necessaria l’occupazione dei terreni (...)” dichiarava di pubblica utilità la formazione della Strada Ferrata presso Torino, in conformità al piano redatto dal cav. Maus ingegnere belga avuto in prestito dalle Strade Ferrate Sarde d’intesa con i Governi Belga e Sardo-Piemontese.
Sorsero invece accese discussioni, che si protrassero dal 1846 al 1848, per il posizionamento della Stazione Capolinea e delle relative dipendenze. Nel 1846, approvato il Piano Regolatore per il Borgo San Salvario, l’ingegnere Maus aveva elaborato il primo progetto della stazione e dei vari impianti, che, posizionati secondo l’asse della Via Nuova, tagliavano il Borgo medesimo, spingendosi oltre il centro degli attuali giardini della Piazza Carlo Felice. Questa era stata eseguita fra il 1823 ed il 1855 su progetto dell’architetto torinese Carlo Promis (1808-1872), professore di architettura nella locale scuola di ingegneria.
Per il fabbricato viaggiatori il progetto di cui trattasi contemplava due edifici paralleli di circa 80 metri per 12, collegati fra loro alla testata verso Via Nuova (ora via Roma) da una cancellata semicircolare. Fra i due corpi di fabbrica trovavano posto i due soli biliari per arrivi e partenze dei viaggiatori.
Il progetto Maus sollevò però critiche vivacissime, perché ostacolava gravemente il traffico nella zona dì Porta Nuova. Non mancarono quindi petizioni al Re contro l’attuazione di tale progetto. In data 17 febbraio 1847, i Sindaci della Città di Torino scrivevano ”alla Maestà Vostra, che il soverchio ravvicinamento dello scalo della Strada Ferrata allo sbocco della Via di Porta Nuova sta per recare all’abbellimento di quella parte della città un gravissimo danno. Egli tende a privarla di una piazza bella, vasta, regolare, indispensabile alla circolazione e (...) ad impedire la comunicazione diretta fra gli edifizii che stanno per sorgere ai due lati della piazza e che formar deggiono una delle più amene parti della città; infine rende più complicato e meno decoroso l’accesso alle due vie Nizza e di Stupinigi”. Per tali motivi essi supplicavano ”la Maestà Vostra a voler ordinare che venga presa a nuovo esame la convenienza di allontanare alquanto lo scalo suddetto”.
Ma non mancarono altre vivaci critiche soprattutto per gli ostacoli, che ne derivavano alle comunicazioni della zona. Anche in un rapporto indirizzato al Regio Consiglio degli Edili, sempre agli inizi del 1847, veniva sollecitato da più parti l’arretramento, affinché ”in tanta interruzione di comunicazioni restino almeno salve le maggiori e soprattutto quella principalissima, che lungo il Viale del Re, la Piazza Carlo Felice, la Piazza d’Armi e il Viale di San Solutore, cinge l’intera attuale parte meridionale della città”.
In seguito a queste giuste proteste l’ing. Maus predispose un nuovo progetto, nel quale l’edificio venne arretrato di un centinaio di metri e lasciata via libera al prolungamento del Viale del Re. Il fabbricato viaggiatori differiva da quello precedentemente progettato per la maggiore lunghezza e la minore larghezza.
Intanto fra proposte e controproposte il tempo passava e solo nel 1848 si concretava un accordo di massima, con il quale si stabiliva il contenimento degli impianti ferroviari entro l’area delimitata dalle attuali Via Sacchi e Via Nizza, fermo restando l’impegno a lasciare libero lo spazio antistante la Piazza Carlo Felice per consentire il prolungamento del Viale del Re, attuale Corso Vittorio Emanuele II, verso l’odierno Corso Umberto I.
E’ opportuno ricordare che il 23 marzo 1849 l’esercito piemontese era stato battuto a Novara dall’esercito austriaco e lo stesso giorno il Re Carlo Alberto aveva abdicato a favore del figlio Vittorio Emanuele.
Il 26 aprile 1852 grazie alla prontezza e all’eroismo di un ”sergente polverista” (oggi lo diremmo ”artificere”), il vogherese Paolo Sacchi, fu evitata una catastrofe, che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze per Torino e i suoi cittadini. A Borgo Dora vi era una fabbrica di polveri, detta dal popolino ”l’Arsenal del Balon”; in quel giorno alle 11 e 45, nel momento in cui gli operai lasciavano il lavoro prese spontaneamente fuoco una botte contenente il miscuglio ternario della polvere da mina; l’incendio si estese rapidamente agli apparecchi vicini racchiudenti complessivamente 10 tonnellate di esplosivo e stava passando ad altri due magazzini di polveri da caccia e da mina. Il sergente Sacchi corse al magazzino vicino, che racchiudeva 40 tonnellate di polveri, ne tolse una coperta già incendiatasi, la immerse nell’acqua e tornato nel magazzino la stese sui barili aperti pieni di esplosivo. non allontanandosi sino all’arrivo dei pompieri.
II Consiglio Comunale in segno di riconoscenza verso il Sacchi gli concesse la cittadinanza torinese, gli accordò una pensione annua di 1200 lire e, cosa veramente straordinaria, intitolò al suo nome la via di Stupinigi, che fiancheggiava l’area su cui doveva sorgere la stazione. Altri doni il Sacchi ebbe dalla Guardia Nazionale.
Il 19 marzo 1857 Cavour, come Ministro delle Finanze, inviò al Ministero dei Lavori Pubblici una lettera in cui comunicava che il suo Ministero aveva ceduto alla Città di Torino terreni demaniali per la formazione di giardini pubblici presso il Valentino, in cambio oltre ad una somma di 500 lire al metro quadrato, di tutto il terreno necessario per compiere il progetto dello scalo delle Ferrovie dello Stato a Porta Nuova, in conformità del nuovo piano elaborato dall’ing. Maus il 28 ottobre 1853.
E’ certo che Cavour fu sostenitore della costruzione a Torino di una stazione grandiosa, atta a far fronte al futuro aumento dei traffici ferroviari, che egli nella sua lungimiranza aveva previsto avrebbero dovuto prendere importanza sempre maggiore nella vita economica e sociale dell’Italia.

• L’ingegnere Mazzucchetti è incaricato del progetto - Si deve attendere il 1860 per un nuovo, decisivo passo verso la costruzione della stazione.
Il primo agosto di tale anno il Direttore Generale delle Strade Ferrate, l’avvocato Bartolomeo Bona, comunicò al Sindaco di Torino di aver dato incarico all’ing. Alessandro Mazzucchetti di studiare il progetto definitivo della stazione di Porta Nuova.
Mazzucchetti, nato a Mortigliengo, paesino del biellese, nel 1824. laureato ingegnere a Torino nel 1845, già nel 1849-50 aveva portato a termine il corpo di fabbrica della stazione di Alessandria e nel 1853 aveva iniziato l’edificio di Genova Principe, terminato nel 1860 e tuttora esistente.
Queste esperienze, specialmente dal punto di vista tecnico, servirono di base al progetto della stazione di Torino; tuttavia questa differisce grandemente dal punto di vista architettonico dalle precedenti opere di Mazzucchetti. La stazione di Alessandria è ancora impostata secondo uno schema neoclassico piuttosto goffo; gli stessi ornati del fregio del frontone sono classicheggianti. La stazione di Genova Principe è più complessa; in essa un corpo centrale predomina sulle due ali, che abbracciano la piazza.
A Torino Mazzucchetti parte da presupposti di razionalità e di funzionalità. Infatti in quegli anni fece le seguenti affermazioni sorprendenti per quell’epoca e che negli anni Trenta del nostro secolo costituirono la base della lotta degli architetti razionalisti contro i tradizionalisti.
E’ principio quasi assoluto che nella scelta dello stile debbasi tenere giudizioso conto dei bisogni speciali cui deve soddisfare la nuova fabbrica, sicché la sua struttura e interna distribuzione e la sua speciale destinazione emergano manifesti all’occhio dell’osservatore dalle forme esterne, anziché in forza di affastellati emblemi convenzionali, ed è pregio dell’opera se le forme accusanti le diverse parti riescono assieme combinate e collegate in modo da costituire un complesso distinto per unità e corrispondenza di stile e armonioso di proporzioni. Trattandosi però di un edificio destinato a soddisfare esigenze affatto nuove e caratteristiche della nostra epoca, con vincoli di ampiezza non ordinaria nelle dimensioni e distribuzione interna così accentrata e saliente da non poter dissimularsi se non con grossolani e vieti artifizi, si presenta più arduo il problema architettonico e più ardua la via per segnare almeno un passo progressivo nelle prove sin qua tentate in vari paesi, con esito più o meno felice, per conciliare le esigenze imperiose delle grandi costruzioni industriali moderne con le norme tradizionali. Nel caso concreto nell’ideare il prospetto principale su vastissima piazza circondata da case di ingente massa doveva volgersi la mira ad assegnare al nuovo edificio da erigersi isolato nel posto più distinto, una decisa preminenza nella mole ed a sposare con armonica euritmia l’ampiezza enorme della forma centinata centrale (che accusando la tettoia dei convogli vale a caratterizzare l’edificio) con le minori proporzioni consentite dalla destinazione delle fabbriche laterali ad uso di uffici.
Il Mazzucchetti si proponeva inoltre dì conciliare le norme tradizionali con le esigenze funzionali dell’edificio, che doveva essere tale da servire il più lungamente possibile consentendo future espansioni. La facciata infine non doveva contrastare con le linee ben definite della piazza su cui si affacciava.
La grandiosità della stazione progettata dal Mazzucchetti fu criticata da molti, poiché sembrava sproporzionata al movimento dei treni prevedibile per Torino. Ma anche in questo caso Cavour aveva visto giusto nel dotare la capitale del Regno Sardo-Piemontese di una stazione capace di far fronte, come effettivamente accadde, ad un esplosivo sviluppo dei traffici ferroviari.
Il 14 maggio 1861 (nel marzo era stato proclamato il Regno d’Italia) l’avv. Bona, Direttore Generale delle Ferrovie dello Stato, inoltrò al Ministro dei Lavori Pubblici, il fiorentino Ubaldino Peruzzi, il progetto dì massima dello Scalo per i viaggiatori e per le merci a grande velocità in Torino.
Due mesi dopo (21 luglio 1861) la costruzione dello scalo venne decretata per legge, dopo l’approvazione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (istituito dal Re Vittorio Emanuele I nel 1817) e l’autorizzazione da parte dei due rami del Parlamento della spesa di lire 2.700.000. Il progetto veniva affidato all’ing. Mazzucchetti.
Nel dicembre dello stesso anno ebbero inizio i lavori. Presidente del Consiglio dei Ministri era il Conte Camillo Benso di Cavour, ritornato al governo dopo la breve parentesi seguita all’armistizio di Villafranca (1859 ). Scheda approfondimento – Seconda guerra di indipendenza (vedi voce ”Armistizio Villafranca)
La nuova stazione venne costruita su un’area rettangolare di 190 metri per 150, compresa - come già detto - fra le vie Nizza e Sacchi e il Viale del Re.
Torino stava attraversando un periodo di grandissimo fervore in ogni campo e Piazza Carlo Felice si preparava a fare degna cornice al nascente, imponente edificio ferroviario, trasformandosi in un bel giardino con una fontana verso l’estremità di Via Roma, fontana che il 6 marzo 1859 sprizzava per la prima volta il suo potente getto d’acqua. Scheda approfondimento - Primo acquedotto torinese

• Il progetto Mazzucchetti - Sulla base delle esperienze passate e di quanto si stava febbrilmente costruendo in tutta l’Europa ed innanzitutto in Inghilterra, il Mazzucchetti separò nettamente i servizi di partenza da quelli di arrivo e fece arrivare 7 binari con i relativi marciapiedi fra due ali laterali sino a 6 metri dalla facciata a vetri, prospiciente Piazza Carlo Felice. I treni quindi risultavano in vista del giardino. I due corpi laterali avevano 40 metri di larghezza e lo spazio fra essi era di 48 metri. Ne risulta che l’area disponibile non fu tutta coperta, ma rimasero liberi due piazzali, di 28 metri quello su via Nizza e di 31 metri quello su via Sacchi. (Planimetria Generale dello Scalo)
L’area centrale di 48 metri di larghezza per 142 di lunghezza fu coperta con una volta cilindrica sorretta da arconi di ferro incastrati agli estremi nelle murature. Tale soluzione, differente da quella adottata a Genova, ove le centine ribassate erano provviste di catene per eliminare le spinte orizzontali, fu ispirata al Mazzucchetti dalla copertura del Palazzo dell’Industria costruito a Parigi nel 1855 con una luce uguale a quella della stazione di Torino. In ciascuno dei due corpi laterali si trovava verso l’esterno un’ampia galleria di 2.000 metri quadrati verso via Sacchi e 1.800 metri quadrati verso via Nizza. Queste due gallerie erano collegate da un porticato largo circa 7 metri, che prospettava verso Piazza Carlo Felice. Nel fabbricato arrivi di via Sacchi vi era un andito centrale per l’uscita dei viaggiatori, una sala d’attesa, locali per il deposito e il ritiro dei bagagli, un ufficio postale e la galleria per le carrozze.
Analoga soluzione vi era in via Nizza, lato partenze; al centro del fabbricato vi era un grande salone, lungo 33 metri, largo 16 e alto 20 con volta circolare a pieno centro, destinato alla biglietteria, ornato di colonne, stucchi ed affreschi, con gli stemmi delle 135 città italiane e l’indicazione della loro distanza da Torino in chilometri.





Stazione di Porta Nuova. Particolare del grande salone, lato via Nizza, originariamente destinato a biglietteria, ornato di colonne, stucchi ed affreschi.

La distribuzione dei biglietti avveniva attraverso una cancellata. Inoltre vi erano tre sale d’attesa, una per ciascuna delle tre classi ferroviarie; quella di 1° classe era decorata con affreschi del pittore torinese Francesco Gonin (1808-1898. noto per le illustrazioni ai ”Promessi Sposi” eseguite nel 1839). rappresentanti la Terra, l’Acqua e il Fuoco, con stucchi di Pietro Isella e ornati e prospettive del vigevanese Carlo Orsi, che disegnò anche i mobili. La sala esiste ancora, intatta; viene utilizzata in occasione di particolari manifestazioni e cerimonie ed ospita gli incontri del Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani - CIFI.
Sempre nel lato partenze erano sistemati la ”sala reale”, il caffè-ristorante, l’ufficio telegrafico e quello dei Capi Stazione, ampi locali per l’accettazione dei bagagli e la galleria delle carrozze. I due piani superiori dei fabbricati laterali furono utilizzati per uffici.
Scrisse Luigi Mirone: ”L’interno della tettoia risultò magnifico, di rara imponenza e ben equilibrato nelle sue grandi dimensioni. L’arco a centine, francamente posto in evidenza, si sviluppava libero e armonioso e si innestava felicemente ai due pilastri dei due fabbricati. L’estremità aperta presentava il suo grande semicerchio spalancato verso il cielo e rivolto a sud, ciò che conferiva all’ambiente, unitamente alla grande vetrata opposta, a quelle in alto sulle due ali laterali e al ben collocato lucernario sul colmo, una luminosità insolita in questo genere di costruzioni”.

Al Mazzucchetti si affiancò un giovane architetto: Carlo Ceppi, nato a Torino nel 1829, che vantava un’esperienza ingegneristica quale aiuto del Grattoni nel traforo del Cenisio. Il lavorare con Mazzucchetti giovò certamente molto al Ceppi, come è messo in evidenza dagli importanti edifici da lui costruiti in seguito a Torino. Ceppi, morto nonagenario nel 1921, fu uno dei primi in Italia ad impiegare il calcestruzzo armato.


Particolare attenzione fu posta al disegno della facciata, in gran parte dovuto al Ceppi. In proposito il Mazzucchetti scrisse:
Mal potrebbe presumersi di accoppiare in linea di prospetto architettonico le forme, grandiose, apparenti, plastiche delle costruzioni murarie, con quelle leggere, sminuzzate ed esilissime delle costruzioni metalliche e se non può negarsi che le costruzioni metalliche, abilmente maneggiate, da se sole aprirono il campo a un’architettura tutta moderna con carattere affatto speciale, mirabile per arditezza di dimensioni e sorprendente per aerea leggerezza, è pure fuori di dubbio che le costruzioni murarie mantengono sino ad ora il privilegio, acquistato e conservato da secoli, di rappresentare in modo più sensibile e con durata più perenne i monumenti artistici di un’epoca, nel significato più generalmente accetto dal comune senso estetico. Con la convinzione dei principi sopra esposti si attese allo studio architettonico della fabbrica, specialmente nel suo prospetto principale a notte, che accenna alla stupenda e amena Piazza Carlo Felice e che fino dalla distanza di 1.200 metri si presenta allo sguardo di quanti si avviano alla sua volta dalle piazze Castello e San Carlo, per il lungo rettilineo della Via Nuova (ora Via Roma). Senza rinunciare però alle costruzioni metalliche ed anzi utilizzando la loro idoneità superiore per le armature di grandi dimensioni, si adottarono esclusivamente le costruzioni murarie nei prospetti esterni e si prescelse uno stile, che senza appartenere precisamente ad una scuola o ad un’epoca, offriva il più esteso campo alle combinazioni e variazioni cui tornasse utile ricorrere.
Il complesso della facciata è a doppio ordine inferiore e superiore, ciascuno di 19 arcate, suddivise in tre gruppi di cinque, più quattro arcate comprese fra pilastri di minor luce.
L’ordine inferiore è sorretto da pilastri quadrati; venne impiegata pietra da taglio:

* per i pilastri inferiori e le pilastrate granito bigio violaceo di Balme (Torino),
* per gli archivolti e il cornicione granito bianco di Montorfano (Como),
* per le colonne e le lesene superiori granito rosso di Baveno (Novara),
* per capitelli arenaria giallognola di Viggiù (Varese),
* per i pilastri dei parapetti dell’attico e la scompartizione delle vetrate, il calcare di Saltrio (Verona),
* per i timpani degli archi ed i fregi dei cornicioni calcare rosso-violaceo d’Angera (Varese).

Le pietre e i marmi (compresi quelli di Carrara per la pavimentazione delle sale d’attesa) furono forniti dalla ditta di Gaetano Catella, fondata nel 1848 e che era attiva a Viggiù, ove possedeva una cava di pietra, e a Milano. Espandendosi, la ditta aveva cominciato a lavorare a Torino, ove nel 1859 trasferì la sua direzione. La ditta è tuttora attiva ed è ancora proprietà della famiglia Catella
La grande vetrata semicircolare ha diametro di 30 metri, cioè molto minore di quello della tettoria Il suo vertice è 2 metri più basso di quello interno degli archi ed ha permesso un migliore equilibrio ed una maggiore armonia di masse fra la parte centrale della facciata e le due ali. Una larga fascia anulare la abbraccia, cosicché il suo vertice coincide con quello dell’estradosso della tettoia. La vetrata è divisa verticalmente in cinque parti da esili membrature, che racchiudono archi ed archetti. Gli elementi di maggior sezione sono di pietra, quelli più sottili di ghisa; di questo materiale sono tutti i serramenti fissi e mobili.

Vincenzo Lena, commentando con sensibilità artistica e storica la costruzione della stazione di Torino Porta Nuova, scrive:
L’elegante prospetto su Corso Vittorio Emanuele, smagliante di luci e di riflessi, che le istoriate finestre proiettavano attraverso le sottili lesene e i costoloni di ripartizione dell’arco centrale, adorno di pregevoli ferri battuti, di stucchi sapientemente modellati, s’impone come una delle più felici opere della migliore tradizione architettonica italiana del secolo scorso. La continuità del portico su tre lati, il ritmo delle quattrocentesche arcate, il regale e fastoso arredamento degli interni con le più equilibrate note barocche del Settecento italiano, ricco di dorature, di affreschi, di tappeti e tendaggi, conferirono al complesso un elevato tono di rappresentanza, adeguato alla richieste e alle esigenze dell’epoca.

Il numero di vetture formanti i convogli ferroviari era però aumentato in relazione sia all’accresciuto traffico di viaggiatori, sia al perfezionamento e al potenziamento delle locomotive, cosicché già nel 1868 si dovettero costruire, prima sul lato arrivi e poi sul lato partenze, due pensiline metalliche, che il Mazzucchetti chiama ”tende di ferro”, per proteggere le persone, che scendevano dalle sezioni dei treni rimaste fuori della tettoia centrale.

L’apertura della stazione avvenne gradualmente, man mano che i vari elementi erano ultimati e resi agibili.
Il 22 dicembre 1864 fu aperto il locale destinato alla partenza dei viaggiatori; il giorno 18 il Direttore Generale delle Ferrovie ne aveva informato con lettera il Sindaco di Torino pregandolo di ”voler disporre per l’illuminazione del piazzale verso la strada di Nizza, nonché provvedere pel corso regolare delle vetture e dei carri”.
I lavori furono completamente terminati nel 1868, il costo fu di lire 3.400.000, cioè circa il 25% più del preventivato.
Una delle cause dell’aumento del costo e della durata dei lavori fu la scoperta durante i lavori di fondazione di una rete irregolare di gallerie delle antiche fortificazioni, cosicché le murature si dovettero spingere sino ad otto e anche dieci metri di profondità. Il terreno di fondazione era ottimo, perché formato da un potente banco di ghiaia, sovrapposto ad uno strato di puddinga (roccia sedimentaria coerente, costituita da frammenti più o meno tondeggianti cementati da sostanze minerali di varia natura). Si approfittò di questo approfondimento delle opere di fondazione per ricavare ampi locali sotterranei utilizzati come magazzini e per gli impianti di riscaldamento. Questi lavori imprevisti causarono anche un notevole rallentamento dei tempi di costruzione.
Ritardi furono dovuti al trasferimento della capitale e degli uffici statali da Torino a Firenze nel 1864.
Inoltre con Legge 14 maggio 1865 la rete di Stato passò alla Società delle Strade Ferrate dell’Alta Italia e ciò fu causa di una temporanea crisi.
Qualche ritardo fu dovuto ad incertezze sulla modalità degli appalti, che alla fine, su proposta di Mazzucchetti, furono divisi in più lotti. Il lotto dell’esecuzione delle opere murarie e delle ordinarie carpenterie fu aggiudicato nell’impresa Ingegneri Vanotti e Finaroli.
Nel 1864 Mazzucchetti aveva lasciato il Genio Civile e la Direzione dei lavori per darsi alla libera professione. Gli era successo l’ingegnere valsesiano Angelo Gilodi. già suo collaboratore.
Non è privo d’interesse indicare qualche costo unitario (in lire 1861):

1. costo totale della stazione - 117 lire/metro quadrato
2. costo totale della grande tettoia -71,8 lire/metro quadrato
3. costo totale delle tettorie laterali – 15,8 lire/metro quadrato
4. costo dei grandi serramenti di ghisa 0,49 lire/chilogrammo, 36,55 lire/metro quadrato.

La stazione di Torino fu completata nel 1868, ma non ebbe mai luogo una sua inaugurazione ufficiale. Probabilmente Torino era ancora profondamente ferita dalla decisione, presa nel 1864. di trasportare la Capitale d’Italia a Firenze: era difficile farsi una ragione che la città artefice dell’unità d’Italia dovesse da Capitale scendere al rango di capoluogo di Provincia.
All’orgoglio colpito si aggiungevano anche non lievi danni economici: basti pensare alle decine di famiglie di funzionari governativi, che lasciarono Torino per spostarsi nella nuova Capitale.
Il malumore popolare si manifestò nel 1865 anche con sommosse, represse con spargimento di sangue.