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 2010  marzo 06 Sabato calendario

OGM, LA COLDIRETTI RAZZOLA MALE

Dei 14 milioni di tonnellate di mangimi che vengono prodotti in Italia ogni anno, più di 10 milioni contengono organismi geneticamente modificati. Il dato emerge da un’inchiesta di ItaliaOggi che ha interpellato i maggiori produttori nazionali. I mangimi tradizionali contengono infatti ogm e hanno una quota di mercato che oscilla: - dall’80%, secondo EmilCap e Calv Alimenta, marchi rispettivamente dei Consorzi agrari di Parma, Piacenza, Reggio Emilia e Bologna/Modena e del lombardo-veneto (Verona, Vicenza, Mantova e Brescia), - al 90% e più, secondo Assalzoo, associazione che raggruppa le maggiori aziende del settore. Ma se le aziende mangimistiche, spesso dipinte come alfieri di un modello agricolo di tipo industriale e intensivo, non propugnano una agricoltura libera da ogm, diverso è il caso dei consorzi agrari. Tutti quelli citati, infatti, aderiscono alla Consorzi agrari d’Italia spa; società consortile per azioni fondata il 16 ottobre scorso in occasione del Forum Coldiretti di Cernobbio e braccio operativo di palazzo Rospigliosi nella più ampia strategia di costituzione della filiera agricola tutta italiana libera da transgenico. A conti fatti, da un lato Coldiretti fa la guerra agli ogm, dall’altro produce mangimi a elevato contenuto ogm e li commercializza. «La nostra linea no-ogm è destinata solo a poche realtà», ci dice Paolo Gerini, responsabile formulati mangimistici di Calv Alimenta, «per quelle aziende che servono le Coop e per qualche piccolo caseificio che vuole differenziarsi. Prevediamo di ridurre la produzione della linea no-ogm. La grande distribuzione, salvo qualche rara eccezione, non la richiede. Alla Tesco inglese, per esempio, non interessa l’ogm free e Beretta (l’azienda di salumi, ndr) si sta adeguando». Anche per EmilCap la linea no-ogm rappresenta una nicchia di mercato, senza grandi prospettive di crescita. Solo nei disciplinari di produzione del Trentino Alto Adige è previsto l’utilizzo esclusivo di mangimi no-ogm. Altri territori, dopo averci provato, sono tornati sui propri passi perché il formaggio ottenuto da animali allevati con mangimi no-ogm non spuntano prezzi di mercato superiori a quelli tradizionali. Anche nei mangimi delle linee no-ogm non è comunque escludibile una contaminazione accidentale, non superiore allo 0,9%, così come previsto dai regolamenti comunitari (Ce) nn. 1829/2003 e 1830/2003. e in alcuni casi le ditte mangimistiche preferiscono segnalare la presenza di ogm per evitare problematiche legali e penali. « sempre più frequente che nel mais, come del resto anche nella farina di soia», afferma Giulio Gavino Usai, responsabile dell’area economica di Assalzoo, «possa riscontrarsi la presenza accidentale di tracce di questa materia prima geneticamente modificata, determinata da contaminazioni che possono avvenire nelle varie fasi di stoccaggio, trasporto o lavorazione di questa materia prima. A causa di questa eventualità, che di fatto non può essere evitata, sull’etichetta del mangime viene a volte indicata, a titolo cautelativo e nel rispetto delle normativa comunitaria, la possibile presenza di mais ogm, che tuttavia rappresenta quantità irrisorie sul prodotto etichettato». Creare linee no-ogm significa dedicare una linea di produzione interamente a questa categoria di prodotto, con particolari attenzioni e procedure, con costi più elevati che vanno a incidere significativamente sul prodotto finale Tutto questo senza considerare l’investimento richiesto alla ditta mangimistica per coprire una nicchia di mercato. Considerando la competizione internazionale e l’attuale congiuntura economica tutti i fornitori di mangimi concordano: senza ogm non esisterebbe la zootecnia nazionale. Infatti dipendiamo fortemente dall’importazione di materie prime. Il 25-30% del mais utilizzato nei mangimi proviene dall’estero, principalmente da Ungheria e Romania. Per la soia l’Italia produce solo il 5-7% del proprio fabbisogno, il resto deve essere importato da Argentina e Brasile che ormai coltivano quasi esclusivamente soia transgenica. In questo caso è necessario distinguere tra farine di estrazione, che provengono quasi esclusivamente dall’estero, e soia integrale che può anche essere di produzione nazionale come quella conferita dai soci del Consorzio del lombardo veneto. Se le linee no-ogm rappresentano una nicchia ancor più lo sono quelle ogm free, ovvero senza alcuna contaminazione con materiale transgenico. Un problema particolarmente sentito dagli allevatori biologici che faticano a trovare sul mercato mangime ogm free ma che, secondo il regolamento comunitario sul biologico Ce 834/2007, potrebbero tecnicamente utilizzare mangime no ogm, quindi con una contaminazione accidentale non superiore allo 0,9%, purché siano in grado di dimostrare all’autorità competente, ovvero il ministero della salute, che tale contaminazione era tecnicamente inevitabile e accidentale. L’ampia discrezionalità così lasciata dalle norme agli ispettori e organismi di controllo sta spingendo gli allevatori bio verso altre strade. Sono in corso, da alcuni anni, diverse sperimentazioni che prevedono la sostituzione della soia con altre leguminose, come favino, pisello proteico e lupino.