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 2010  marzo 06 Sabato calendario

L’ALBA IN FABBRICA ASPETTANDO ADRIANO OLIVETTI

Adriano Olivetti chi è? Un pensatore, un intellettuale, un filosofo, un visionario, un utopista, uno scrittore, un editore, un imprenditore, un politico? Non ricordo di essermi fatto queste domande nel 1955 quando l’ho incontrato per la prima volta nel suo ufficio di Piazza di Spagna, dove lui veniva e sostava per qualche ora a Roma di tanto in tanto come in un’ambasciata straniera. Infatti in quel primo incontro – nato dalla casuale segnalazione di un amico, più mondana che professionale – ve d evo intorno a me ciò che, da piemontese nato non lontano da Ivrea, già sapevo di lui: un’azienda solida, un imprenditore intelligente, un pianeta benevolo. E ogni cosa, in quel pianeta, più bella che altrove. Sul tavolo di Sottsass oggetti di Munari, però tutto sgombro, non documenti da esaminare, non cartelline in attesa. Un libro. Schumpeter, ”Capitalismo, socialismo, d e m o c ra z i a ”. Alle spalleun Leger, operai al lavoro. Mi stupiva la cravatta bianca. Mi colpiva lo sguardo, occhi azzurri che nessuno ha dimenticato fra coloro che hanno lavorato con lui. Olivetti faceva poche domande e ascoltava. facile parlare della propria vita a poco più di vent’ anni, l’U n i ve rsità, la tesi, i libri, i maestri, i primi viaggi, l’a s s istentato, e adesso un lavoro strano, mai fatto prima da altri, improvvisato, allegro, ma che noi – quelli del primo concorso per giornalisti televisivi – vivevamo come una seconda vita. Una cosa un po’ a parte, da tempo libero. E intanto scrivevamo per qualcosa che sarebbe venuto dopo. Adriano Olivetti ascoltava e soltanto molti anni dopo qualcuno a Ivrea ha trovato tra le sue carte le trenta righe che aveva scritto di me,quel giorno dopo quell’incontro. Io lo ascoltavo parlando, nel senso che mi premeva la sua attenzione. Strano evento, a cui partecipavo solo per l’interesse a conoscerlo. In quell’Italia era un personaggio diverso, lontano, altrove, in un’altra parte del mondo. Almeno del mio mondo immaginato. Fra poco ci saremmo salutati e io avrei raccontato al gruppo di amici, in Piazza del Popolo: ”Oggi ho incontrato Adriano Olivetti” e lo avrei descritto. Sapevo che lo avrei fatto con una punta di esagerazione e di ammirazione. Olivetti aveva un’idea diversa. ”Lei deve venire a lavorare a Ivrea. Vorrei che lavorasse nel settore del personale. Intervistare e scegliere. Prima dovrà fare esperienza in fabbrica. In tutti i reparti. Alcune settimane. impossibile assumere o dirigere persone senza sapere che cosa fanno quelle persone tutti i giorni della settimana, per tutta la vita”. Su un foglietto mi ha scritto una data con una strana proposta. ”Venga alle cinque e mezza del mattino. Voglio che veda la fabbrica vuota. Poi le persone che arrivano, le macchine che si avviano, quando le persone cominciano a toccare le macchine. Quello è il momento che deve conos c e re ”. Se fosse un film, sarebbe una scena di ip nosi. Sono tornato alla Rai, che allora era in via del Babuino, sono salito dal vicedirettore generale Bernardi (quarto piano) che aveva altro da fare e un forte profumo di dopobarba, ho dato le mie dimissioni (ma poi ho dovuto scrivere la lettera rituale per il direttore generale Pugliese). E sulla mia Topolino, l’auto che avevo in quel tempo, ho guidato da Roma a Ivrea senza fermarmi a Torino. A quel tempo Ivrea aveva un solo albergo. Si chiamava Dora ed era intatto da almeno un secolo. A quel tempo si lavorava anche il sabato. A quel tempo Paolo Volponi si occupava di relazioni sindacali, una mansione che nessuna fabbrica italiana ha mai avuto. Nella sala da pranzo dell’unico albergo, Volponi mangiava da solo, il sabato del mio arrivo. Sono andato a sedermi con lui. Invece di cominciare, il discorso è continuato come se avessimo già lavorato insieme. Parlavamo di libri, di scrittori. Calvino ha appena presentato il manoscritto, ne sai niente? Hai già visto il libro di Ottiero? Leggilo, è bello. Bigiaretti sarà fuori il prossimo mese, anche Fortini. Giudici no. Giudici scrive sui suoi foglietti e poi si vedrà. Panpaloni haletto le sue ultime poesie. Dice che sta crescendo. Non parlavamo di fabbrica ma eravamo in fabbrica, dove la cultura non era un diversivo, come la musica in officina. Era il territorio più grande, con un prima e un dopo chiamato ”la storia” su cui si impiantava la fabbrica e c’era il lavoro. Stava accadendo una strana contaminazione tra la realtà anche dura del lavoro (il reparto presse, dove potevi diventare sordo) e l’impegno di scrivere sentito e accettato come un dovere legato al lavoro. La sovrapposizione dei due territori, degli scrittori, e degli operai, creava un senso di tensione, la persuasione di colmare un vuoto, di adempiere ad un dovere. Come i giornalisti di guerra. Il secondo incontro con Adriano Olivetti è avvenuto alle ore 5:30 del mattino di quel primo lunedì di Ivrea. Si saliva attraverso un ippiccolo bosco dalla ”fabbr ica nuova” di vetri che riflettevano campagna e cielo, nella luce di confine dell’alba, verso la piccola Bauhaus in cui c’erano la segreteria e l’ufficio dell’i ngegner Adrianò (così lo chiamavano operai e dirigenti nel bosco e nella fabbrica). Lungo il percorso incontravi la biblioteca, grande come la biblioteca di un campus universitario americano. Era lì a dichiarare che i libri (decine di migliaia) dominano sulle macchine. E che la bellezza controlla e mantiene ragionevole tutto ciò che si fa nella vita. Che almeno sia bello, il più possibile vicino alla perfezione. Adriano Olivetti era libero subito. La cravatta bianca e gli occhi azzurri qui erano i sigilli del regno, nella stanza con pochi mobili chiari, una lunga finestra sul cielo, un tavolo grande, sgombro, senza cassetti. Le conversazioni erano brevi ma non avevi l’impressione che fossero brevi. Non tagliava corto. Non usava aggettivi. ”Voglio che lei veda il buio del lunedì”. Così mi ha spiegato il lavoro in fabbrica. Una settimana prima ero in uno studio televisivo, a fare interviste fra telecamere e luci a spot. Qui mi sembrava di essere stato trasportato in un pianeta lontano in cui ogni forma è bella e il lavoro è un valore. La sequenza non era più lavoro – retribuzione – consumo. Era bellezza – lavoro – vita. La bellezza doveva essere data, il lavoro doveva essere giusto, la vita doveva essere tua. Qui e poi in America, e poi in Cina, ho incontrato Tiziano Terzani. Qui, dopo mesi di fabbrica (soprattutto le prese e le catene di montaggio) ho incontrato Ottiero Ottieri. Era già il celebre autore di ”Donnarumma all’assalto”, pescatori che diventano operai in una fabbrica che si affaccia sul mare. Abbiamo lavorato insieme per anni, con un quadro di Braque alle spalle. Siamo rimasti amici per sempre, da una parte all’altra del mondo. Amici e orfani. Adriano Olivetti è morto il 27 febbraio del 1960.