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 2010  marzo 06 Sabato calendario

IL MURATORE CHE HA RIDATO GAS A TRIUMPH

Con la cazzuola ci vuole mano ferma, massima concentrazione per pochi istanti. Con le motociclette quei secondi si fanno anni. «Molti, molti più di quanti ne avessi previsti». John Bloor ha le mani curate e le dita lunghe, i calli di quando dava un colpo secco col polso lanciando il cemento sul muro sono stati limati, crediamo, da un’abile manicure. Dimostra meno dei 65 anni che va a compiere, nonostante la vita per lui sia cominciata presto e, soprattutto, sia ricominciata ancor prima del previsto.
Aveva 15 anni quando per arrotondare il salario di suo padre minatore lasciò la scuola nel Derbyshire e si fece apprendista muratore, ne aveva 38 quando, assiso su una delle più solide fortune del Regno Unito, decise di rinascere come imprenditore delle motociclette, (ri)creatore della Triumph, leader assoluto di quel triumvirato delle due ruote che fece la storia dell’industria britannica e mondiale. Bsa, Norton e la sua Triumph che oggi è tornata un mito, capace in Gran Bretagna di vendere più della Kawasaki nelle alte cilindrate e di stare addosso alla Yamaha. Fra il primo e secondo inizio, per John Bloor c’è statala vitain mezzo. Ventitré anni di lavoro disperatissimo, dalla casa costruita nel Derbyshire con la mini impresa avviata a meno di vent’anni, a "Bloor homes" gigante delle costruzioni nel Regno Unito. Una corsa che lo colloca alla posizione numero 178- ovvero 475 milioni di sterline di fortuna personale - del Sunday Times rich list (2008) . Se non avesse scommesso su Triumph, di milioni di pound ne avrebbe almeno 150 in più. Tanto gli è costato, negli anni, finanziare un’operazione cominciata quasi per caso. Nel 1983, falliti tutti gli esperimenti di acrobazia finanziaria messi in piedi dai governi laburisti e lasciata in eredità a Margaret Thatcher, la moto di Marlon Brando in Il selvaggio (Blackbird 1953), fu messa in liquidazione.
Scomparvero così, in un pomeriggio, o poco più, tre brand che negli anni 60 erano stati leader, un collasso che divenne case study nelle università di economia del mondo.
L’arrivo dei giapponesi con la plastica, con costi di produzione più bassi e tecnologia innovativa, fu una pistolettata alla tempia di un modello industriale decaduto. Bloor non se ne curò. A lui, nel 1983, interessavano i terreni di Coventry dove sorgeva la fabbrica e per questo, solo per questo, si assicurò marchio, impianti, disegni. Rase al suolo tutto e costruì le case che aveva immaginato. Solo allora maturò in lui l’idea di rilanciare un pezzo di storia inglese.
Ventisei anni, molto sudore e una pila infinita di sterline dopo, ha vinto. «Sono contento, è evidente – dice – ma tanti anni di assoluta dedizione a un progetto sono troppi, hanno interferito pesantemente con la mia vita. Fui troppo ambizioso allora e spesso la metà di me stesso che voleva resistere era in lotta con l’altra metà, quella che mi suggeriva di mollare tutto. Oggi non lo rifarei, lo confesso. stato come scalare uno specchio, ogni errore significava cadere e dover ricominciare a salire arricchito di una piccola esperienza in più».
Guarda in basso, mentre parla come se volesse dimenticare la sofferenza di quegli anni. Poi aggiunge: «Mi hanno aiutato il buon senso e la persistenza caratteristiche che ho ereditato dai miei genitori. Miè stato fedele alleato il rispetto per le persone. I miei lavoratori sono il mio più grande asset, in ogni azienda i dipendenti devono essere il maggior asset. Nonostante questo, posso solo augurare la migliore fortuna a quel signore che s’è messo in testa di rilanciare Norton.Lo attende un’operazione titanica».
La fortuna di John Bloor in realtà passa da uno shock. Nel 2002 quando Triumph perdeva ancora (rosso di 750mila sterline su un fatturato di 125 milioni) lo stabilimento storico di Hinckley, quello dove era stata trasferita la linea di montaggio di Coventry, bruciò e cessò di produrre per sei mesi. Sette anni più tardi, oggi, fattura oltre 300 milioni, ed è in solido utile di 14 milioni e mezzo, nonostante la crisi.
Il pompiere di quell’incendio è alto un metro e novanta, è danese e ha 34 anni. Tue Mantoni fu inviato dalla società di consulenza McKinsey ad aiutare Bloor a uscire dai guai di un’operazione che non decollava e che nel fuoco rischiava, davvero, di finire in cenere. Oggi, Mantoni è il ceo e grazie, anche, a lui, Triumph, è un case study al contrario. «Quel giorno, il 17 marzo del 2002, John chiamò tutti gli operai ”spiega Mantoni – e disse loro: se mi aiuterete a ricostruire nessuno di voi perderà il lavoro. Fu deciso un cambio strategico con molta più attenzione alla dimensione commerciale e al rapporto con la distribuzione».
I risultati sono arrivati subito. Dal 2003 al 2009 è stata una crescita costante di fatturato, ordinativi, utili. «Il mercato ripiega – continua Mantoni ”ma noi prendiamo quote. Sopra i 500 cc abbiamo il 4,5% su base globale, il 13% in Uk contro l’11,6 di Kawasaki e il 13,8 di Yamaha». A fronte di una contrazione media del settore del 31% nel 2009, Triumph s’è ristretta del 9 per cento. « evidente che la recessione si è fatta sentire anche per noi – continua Mantoni – ma non ha cambiato una strategia di mediolungo periodo che punta quasi tutto su ricerca e sviluppo. In un anno difficile come il 2009 abbiamo investito il 7% del nostro fatturato nello studio di nuovi prodotti e nuove tecnologie: 165 ingegneri lavorano a tempo pieno. Oggi abbiamo 15 modelli e siamo pronti a lanciarne altri quattro». Dalle variazioni della storica Bonnevile, alla Triple Speed ( Tom Cruise in Mission Impossibile).
Entrambe amate in Italia, dove Triumph ha il 10% del mercato con i giovani più interessati alle vecchie classiche anche se classico è solo il look, la tecnologia è moderna e i carburatori cromati sono finti.
Quella di Triumph e, ancor di più, quella personale di John Blorr è una storia inglese anomala. Echeggia, in un mondo dove dominano i servizi e i resti di un’industria manifatturiera di ben altra taglia, l’epopea del self made man italiano, della piccola o media impresa di casa nostra. Bloor non si misura nel paragone con realtà diverse, ma volge il pollice a terra quando gli si parla di un’economia, quella britannica, ad altissima percentuale di finanza. «Non voglio dare la sensazione di tifare per una parte o per l’altra, mi limito a constatare che l’industria manifatturiera in questo paese è stata penalizzata per troppi anni. I politici l’hanno rovinata. Ormai si paga la gente per stare a casa in un mondo dove il livello di istruzione è precipitato e l’eccellenza di una volta non c’è più. Produciamo nel Regno Unito e in Thailandia. Ma senza la Thailandia, mi creda, non avremmo nemmeno il Regno Unito».
E, forse, quel sorprendente cartello che dall’autostrada indica l’uscita per un’indefinita "Motorcycle Factory", anonima entità senza luogo quasi fosse l’ultimo retaggio di un’estinta civiltà industriale, non esisterebbe più.