Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  marzo 06 Sabato calendario

UN POCO D’INFLAZIONE FAR BENE ALL’EUROPA

Quello che succede in Grecia non rimarrà confinato alla Grecia. Anche se il paese ellenico rappresenta solo lo 0,5% dell’economia mondiale, il tracollo di questa nazione dalle mani bucate avrà conseguenze a livello globale. Le conseguenze finanziarie del caso greco rischiano di diventare la minaccia più grande che l’euro – e il progetto europeo – si sia trovato ad affrontare finora.
Troppa spesa, introiti tributari troppo scarsi e manipolazione dei conti pubblici: sono questi gli elementi chiave del problema greco. Ma la storia non è tutta qui:la Spagna e l’Irlanda sono nei guai nonostante abbiano un rapporto fra debito pubblico e Pil molto più basso che in Germania. L’Italia, anch’essa nel mirino dei mercati finanziari, ha un debito pubblico elevato ma un deficit più basso della media di Eurolandia. Una gestione assennata dei conti pubblici non è bastata a immunizzare la Spagna dalla disoccupazione di massa.
Alla radice dei problemi di questi paesi c’è il fatto che i prezzi e i salari sono cresciuti molto più in fretta rispetto alla Germania e ad altri stati membri dell’euro. Questa perdita di competitività non può più essere compensata con la svalutazione della moneta. Le bolle immobiliari in Irlanda e in Spagna hanno contribuito ad aggravare la situazione. E non sono state d’aiuto nemmeno la pressione salariale e la rigidità del mercato del lavoro nella maggior parte di questi paesi.
Dal momento che uscire dall’euro appare, almeno per il momento, impensabile, questi stati rischiano anni di tagli ai salari e ai conti pubblici, con crescita anemica, disoccupazione alta e deflazione.
Dei modi per alleviare la situazione ci sono. Ad esempio, la Germania e altri paesi potrebbero adottare per un certo periodo politiche di bilancio espansive. Oppure – soluzione più efficace – tutta l’area dell’euro potrebbe adottare per diversi anni politiche monetarie espansive. Oggi questa seconda opzione rappresenta un anatema, perché i "fondamentalisti dell’inflazione" non ne vogliono sentir parlare. Q uesta élite di banchieri centrali, alti funzionari, politici, accademici e giornalisti persiste a sostenere che lasciar crescere l’inflazione sopra il 2% è un rischio inaccettabile.
Il loro punto di vista è condizionato dalle disastrose esperienze di iperinflazione in Germania negli anni 20 e di stagflazione nei paesi industriali negli anni 70 e 80. Certo, un’inflazione moderata può crescere piano piano fino a diventare inflazione alta. Ma come tante buone idee che si tramutano in culto, il fondamentalismo antinflazione può essere nocivo. In pratica, non esiste nessuna prova empirica che un’inflazione moderata che rimane tale possa danneggiare la crescita. Nella maggior parte dei paesi, tagliare i salari reali è politicamente difficile, o addirittura impossibile. Ma per riconquistare competitività e risanare i conti, un aggiustamento dei salari reali a volte è inevitabile. Un livello d’inflazione leggermente più alto consente di operare questo aggiustamento doloroso con un livello di conflitto politico più basso.
Un’inflazione bassissima, per altro verso, nel caso di una recessione può facilmente trasformarsi in deflazione. La discesa dei prezzi incoraggia la gente a rimandare le spese e questo peggiora le cose e riduce il gettito fiscale, rendendo più difficile per il governo far fronte al debito, con conseguente incremento della mole e del costo del debito stesso.
I danni del fondamentalismo antinflazione non si fermano qui. Quando le autorità si concentrano solo sull’inflazione, diventa più facile perdere di vista il quadro generale: prezzi delle attività, crescita e occupazione. La politica può diventare troppo rigida o troppo lassista (come nella fase che ha preceduto la crisi negli Usa, quando l’inflazione bassa era vista come un segnale confortante che le cose andavano bene). Un’inflazione molto bassa, inoltre, rende meno efficace la politica monetaria quando la crescita rallenta, perché i tassi d’interesse non possono scendere al di sotto dello zero. Nella crisi attuale, i governi sono stati costretti ad affidarsi in modo eccessivo agli stimoli di bilancio, e le Banche centrali a comprare titoli direttamente, assumendosi una maggior quota di rischio e distorcendo i mercati finanziari.
La crisi di Eurolandia mette in evidenza la necessità di una discussione più aperta sui pregi e i difetti di un’inflazione ultrabassa, e Olivier Blanchard, il chief economist dell’Fmi, ha appena lanciato un appello a prendere in considerazione un obiettivo d’inflazione meno ambizioso (4%). C’è voluto coraggio. Venendo da quello che un tempo era il tempio del fondamentalismo antinflazione, è come se il rabbino capo chiedesse di riconsiderare le regole kosher.
La reazione dei consiglieri della Bce alla proposta di Blanchard? « giocare col fuoco», «estremamente dannosa», addirittura «un errore demoniaco». La crisi dell’euro e le reazioni sprezzanti a una proposta proveniente da fonte autorevole sono sicuramente segnali che è arrivato il momento di esaminare accuratamente il fondamentalismo antinflazione.