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 2010  febbraio 13 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 3 - IL DISCORSO DELL’IMPERATORE

Ci troviamo a Stupinigi, nell’anticamera dell’Imperatore Napoleone. il 1805. C’è la famiglia Cavour che aspetta di essere ricevuta. Compresa la nonna, la marchesa Filippina de Sales, della famiglia del Santo protettore dei giornalisti.
Che però non era più marchesa. I francesi erano arrivati a Torino essendo ancora dei rivoluzionari democratici. Avevano abolito subito i titoli nobiliari. Il vecchio marchese di Cavour, il marito di Filippina, ridotto a semplice cittadino, era stato costretto a mettersi a tavola con un cuoco. Le ho detto che questo marchese di Cavour, il sesto della serie, si chiamava Filippo?
Filippo e Filippina. Buffo.
I Cavour erano venuti a bussare alla porta dell’Imperatore perché volevano recuperare proprietà, titoli, soldi, potere. I Cavour, sulle prime, avevano tifato per il ritorno del re (il Savoia di quel momento, che s’era rifugiato con la famiglia a Cagliari). Come seconda soluzione avrebbero accettato anche l’annessione alla Francia. Insomma, andava bene più o meno tutto, tranne un Piemonte trasformato in repubblica democratica e giacobina, alla maniera della Rivoluzione.
Adesso il Piemonte era stato annesso, però. Lo ha detto lei, era diventato la 27a Divisione.
Infatti adesso s’erano piuttosto tranquillizzati. Uno di famiglia, il barone La Turbie, aveva spiegato che Napoleone avrebbe inaugurato una politica nuova, concedendo «una protezione particolare ai proprietari. Il governo francese sa che i proprietari sono le colonne dello Stato. I proprietari, in ogni tempo e in ogni paese, sono sempre i più fedeli alleati del governo. I proprietari sanno molto bene che le loro proprietà sono in pericolo sia durante la repressione di una rivolta che durante la rivolta stessa».
E addio Rivoluzione democratica. Noi però stiamo sempre nell’anticamera di Napoleone ad aspettare.
Sì. Le famiglie venivano chiamate da un ciambellano in abito rosso ricamato d’argento. In presenza di Sua Maestà bisognava prima di tutto inchinarsi tre volte. L’Imperatore, apparso con due ore di ritardo, radunò i postulanti in attesa e fece loro il seguente discorso: «Io so che qui a Torino esistono diversi partiti e che c’è chi si illude che possa tornare il re di Sardegna. Alcuni vogliono una repubblica indipendente, altri brigano per la formazione di una Repubblica italiana, mediante l’unione con altri Stati. Io vi domando: si possono immaginare popoli così diversi tra loro per mentalità, costumi, idee e posizioni geografiche come il piemontese, il lombardo e il napoletano?».
Sembra Bossi.
Continuò: «C’è poi un altro partito, è quello che vuole l’unione alla Francia. Ecco un partito saggio. Oggi si fa la guerra con due o trecentomila uomini, che speranza possono avere le piccole potenze? Se qui vi fosse uno Stato indipendente sareste il bersaglio permanente di francesi e tedeschi».
Era vero?
No. I Savoia, nei secoli precedenti, avevano abilmente praticato la politica dei due forni, alleandosi una volta con i francesi e una volta con gli austriaci. E, benché piccoli, erano sopravvissuti. Il discorso di «mettersi con i grandi se no è la fine» vale specialmente in regime di monopolio. Che era quello a cui tendeva Napoleone. Quando, nel Congresso di Vienna, le potenze ridisegnarono la carta d’Europa, badarono bene a evitare monopòli e a creare una situazione di equilibrio generale.
Le potenze. Cioè: Stati Uniti, Russia, Cina...
No, no. Inghilterra, Austria, Russia, Prussia e Francia. Le potenze, all’epoca, erano queste cinque. Gli Stati Uniti, ossia «l’America», erano un posto lontano e, a pelle, poco raccomandabile. «Ti mando in America» era una minaccia. La Cina era solo una moda venuta dalla Francia.
La Russia?
La Russia, sì. C’erano gli zar. Nel 1805 lo zar era Alessandro I. Un biondino, dall’aria slavata, un’altra vittima di Rousseau. Cioè amore per l’umanità, odio per gli esseri umani. Napoleone lo soggiogava psicologicamente. L’Imperatore gli propose: dividiamoci il mondo! E lui disse di sì. Poi lo fregò durante la campagna del 1812, ritirandosi e lasciando che della Grande Armata francese facesse giustizia l’inverno.
Il discorso di Napoleone è interessante perché fa vedere che l’unità d’Italia era una questione già in quel momento.
Certo. La penisola si presentava geograficamente come un corpo unico ed elegante, coerentemente chiuso a nord dalle Alpi e a sud dal mare. La letteratura italiana esisteva. L’arte italiana pure. Foscolo nel 1802 aveva cominciato Le ultime lettere di Jacopo Ortis così: «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia». Un’esagerazione. Però c’era quella parola disgraziata: «patria».
Non dovevamo essere ricevuti da Napoleone?
Sabato prossimo, sabato prossimo.
Giorgio dell’Arti