Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  febbraio 13 Sabato calendario

DOLLARO-YUAN PER VOCE ARANCIO


Tassi di cambio di mercoledì 3 febbraio (mattina): 1,393 dollaro/euro (per comprare 1 euro servono 1,392 dollari); 0,146 dollaro/yuan; 0,011 dollaro/yen.

Il cambio dollaro/yuan è uno degli argomenti più trattati sulla stampa economica americana e non solo. Dopo gli attacchi dell’11 settembre la Federal Reserve ha iniziato una politica di espansione monetaria sui mercati e sul sistema finanziario che ha indebolito i paesi dell’euro a vantaggio della Cina. Perché Pechino, con un tasso di cambio fisso a 8,28 yuan per dollaro, ha potuto conquistare i mercati con le sue merci. Tra il 2005 e il 2008, la Cina si è poi convinta a permettere la rivalutazione dello yuan del 20 per cento. Ma la tempesta finanziaria scatenatasi proprio a partire dal 2008 ha avuto l’effetto di far interrompere questa politica, per non danneggiare le esportazioni e gli equilibri sociali interni. Da allora il cambio yuan/dollaro è fisso a 6,83.

Steve Hawke, economista della Johns Hopkins University ed ex consigliere di Ronald Reagan: «Nel momento in cui l’intero Pianeta tremava nel timore del collasso finanziario, la Cina si pose come elemento di solida stabilità dei mercati internazionali, Il risultato è stato raccogliere investimenti, fiducia e commesse». Secondo Hawke, dopo la crisi Pechino ha preso due decisioni-chiave: l’acquisto delle materie prime, che ha risollevato l’indice delle spedizioni marittime di grandi cargo, primo segnale di ripresa globale; la resistenza agli americani sul fronte del cambio yuan/dollaro, che ha aumentato la credibilità di Pechino sui mercati valutari.

Secondo un’analisi di Bank of America la moneta del Dragone è sottovalutata del 9,9% contro il dollaro. Il fair value dello yuan (ossia il valore corretto) sarebbe a quota 6,15 per dollaro, mentre attualmente la moneta di Pechino è a 6,83.

Zhou Xiaochuan, 61 anni, detto ”Mister Dollar” o ”Bapi Zhou” (quello che ”ti cava la pelle”), da sette anni governatore della Banca del Popolo, la banca centrale della Cina. Per anni ha convinto il governo ad acquistare i debiti degli statunitensi, per costruire così «un guinzaglio soft nelle mani di Pechino». E’ lui che ha deciso di riagganciare lo yuan al dollaro nel 2008 per «tallonare gli interessi cinesi in un’America che rischia il fallimento». L’operazione è considerata dagli economisti la sua «impresa più incredibile». Ha varato poi la più massiccia operazione di soccorso economico della storia, salvato lo yuan, l’economia cinese ed asiatica, in buona parte anche quella americana. Il 24 marzo del 2009, in piena recessione occidentale, ha impressionato i mercati con il famoso discorso sulla riforma del sistema monetario internazionale, in cui ha proposto di archiviare l’era del dollaro come valuta di riserva, per passare a una moneta nuova, emessa dal Fondo monetario internazionale. Per incrementare il tasso di cambio, ha confidato, aspetterà però almeno la fine del 2010.

Perché i cinesi insistono in questa politica invece di rivalutare lo yuan? Secondo gli osservatori stranieri, le autorità cinesi non vogliono che le merci diventino troppo care per gli stranieri, e proteggono artificialmente il potere di acquisto del dollaro in Cina perché pensano che una rivalutazione faccia scendere le esportazioni e quindi la domanda totale di merci in Cina.

La Banca del Popolo possiede 900 miliardi di bond del Tesoro americano. La fonte principale dei capitali che la Cina reinveste nei titoli del Tesoro americani è costituita dai proventi commerciali che danno corpo al surplus cinese. Tuttavia, oltre metà del surplus commerciale di Pechino è accumulato da imprese cinesi a capitale straniero (il 64% a ottobre 2009).

Secondo Paul Krugman, premio nobel per l’Economia, il nuovo mercantilismo cinese - con lo yuan fermo per legge al valore di 6,83 rispetto al dollaro e il boom delle esportazioni (la Cina ha superato la Germania ed è ora il secondo paese esportatore al mondo) - costerà all’economia americana nei prossimi due anni la perdita di 1,4 milioni di posti di lavoro.

L’International Trade Commission americana (Usitc) ha deciso di rispondere all’offensiva economico-finanziaria cinese applicando la politica dei dazi: gli Stati Uniti applicheranno dazi dal 10 al 16 per cento sui tubi d’acciaio made in China. In tutta risposta, il governo di Pechino ha precisato che «ogni decisione su metodo, contenuto e tempistica della riforma dei cambi» verrà presa «secondo le nostre necessità di sviluppo». Già a settembre era scoppiata un’altra guerra con la decisione americana di alzare i dazi sull’import degli pneumatici la cui invasione (1,85 miliardi di copertoni made in China) aveva messo in ginocchio la già traballante industria dell’auto. Minacce di rappresaglia, accuse, controaccuse. Era toccato a Obama promettere al collega Hu Jintao proprio durante la sua visita a Pechino di lavorare per superare le frizioni nel commercio.

Alcuni osservatori notano che il dollaro debole fa parte del pacchetto di misure di rilancio dell’economia americana. Il fatto che tale debolezza si esprime nei confronti dell’euro, restando bloccato il cambio dello yuan in dollari, non dispiace alle multinazionali americane che sono andate a produrre in Cina e sono responsabili per oltre il 60 per cento dell’export cinese. Una rivalutazione dello yuan permetterebbe loro di cambiare i propri profitti in Cina in una quantità maggiore di dollari. Ma lo yuan debole permette a queste imprese, basate in Cina, di aggiudicarsi sempre maggiori fette del mercato mondiale dei beni che producono e alle loro fabbriche negli Stati Uniti di importare parti e componenti cinesi a buon mercato da usare per i propri prodotti.

Mentre gli Stati Uniti sono in recessione, con un Pil che nel 2009 dovrebbe oscillare tra -0,4 e -0,1 per cento, l’economia e i consumi interni cinesi hanno tenuto e la crescita del Pil 2009 supererà l’8,4 per cento. Ormai tre delle prime quattro banche al mondo per valore di Borsa hanno il loro quartier generale a Pechino o a Shangai. E le riserve valutarie nel 2009 sono salite a 2.399 miliardi di dollari, un’accumulazione senza precedenti storici.

Se manterrà gli attuali ritmi di crescita, fra 17 anni il prodotto interno lordo cinese sorpasserà quello americano.

Secondo Joseph Zeng, manager di Greenwoods Asset Management, «Pechino alla fine cederà alle pressioni dei suoi partner commerciali». Si stima che entro la fine dell’anno prossimo lo yuan si sarà apprezzato tra il 4% e il 6%, sostenendo la crescita dei mercati azionari asiatici. Sulla Cina grava però l’ombra dell’inflazione, innescata dal rialzo dei prezzi alimentari, e di una bolla speculativa che interessa il mercato immobiliare e del credito

Gli esperti insistono sul fatto che persistendo gli Stati Uniti nella politica dell’espansione monetaria e i cinesi in quella dell’ancoraggio al dollaro, chi ne esce con le ossa rotta è l’euro, che fluttua liberamente sui mercati ed è l’unica moneta ad assorbire sul cambio gli effetti della politica monetaria Usa. Con le prevedibili conseguenze negative sul commercio estero dei paesi dell’Unione Europea.