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 2010  febbraio 12 Venerdì calendario

L’UOMO GLOBALE - NEW YORK

La globalizzazione non ha investito solo l’economia, il nostro lavoro, i consumi, le mode culturali, la visione che abbiamo del mondo.

Attraverso i nuovi mestieri transnazionali, le migrazioni, la società multietnica, stiamo cambiando anche l’essere umano. In mezzo a noi è ormai cresciuta una nuova razza. Da non confondersi con gli immigrati per bisogno. Questi invece sono i nomadi di professione, a loro agio nel villaggio globale, senza più radici, con un’identità culturale che trascende il colore del passaporto e anche quello della pelle.

Sono già un esercito ben visibile nelle città più cosmopolite: San Francisco, Hong Kong, Londra, Parigi. E naturalmente New York. qui, nel quartiere di Soho, che ho incontrato l’esemplare perfetto di questa mutazione genetica.

Anzi due. Madree figlia. Perché l’uomo universale del terzo millennio, tra l’altro, è sempre più spesso una donna.

Lo spaesamento è immediato, entrando in casa di Julia Hillesheimer. In questo vasto loft sulla Greene Street c’è ancora qualche putrella in ghisa che sostiene i soffitti altissimi: ricordo dell’epoca in cui Soho era un quartiere di piccole officine. Ma i primi oggetti che noto sanno di Oriente: un antico letto a baldacchino cinese, delle lanterne, dei kimono sospesi a mezz’aria. Julia è tedesca, della regione di Hessen.

«Qui in America - dice - cominciai a venire da ragazza alla fine degli anni Sessanta, dopo aver fatto la scuola d’arte a Londra.

Emigrante per curiosità, non per necessità. Gli americani che vedevo in Germania da bambina avevano i sandali, i capelli lunghi, fumavano marijuana ed erano pieni di soldi». New York per Julia è anche il luogo dell’incontro con l’Asia. Con un asiatico, in particolare, divenuto il padre dei suoi due figli. «Era una Capodanno cinese - ricorda - quando incontrai qui questo artista giapponese. Ce n’erano tanti, molto esotici. Ne sono venute fuori tante unioni miste, e bambini eurasiatici». Lui è Tohru Nakamura, fotografo. «Andammo a vivere in Messico. Usai la mia esperienza londinese per lavorare i tessuti.

Assorbivo molta influenza asiatica: Giappone, Cina, Indonesia, le tecniche per dipingere la stoffa usando l’impressione su legno. C’erano sempre più orientali nella mia vita, e il loro design asiatico mi entrava dentro come l’aria nei polmoni».

Nella casa di Soho, dietro un paravento cinese, temi e colori delle sue stoffe evocano una tradizione artistica che viene da quel mondo. Su un mobile c’è una statuina di porcellana cinese, una dama panciuta dalla veste azzurra e verde: sulla sua testaè appoggiato un badge elettorale «Obama 2008». Julia adesso disegna abiti per una catena americana della grande distribuzione di lusso: il gruppo Barneys, con grandi magazzini in Madison Avenue a New York e Beverly Hills a Los Angeles. «Ormai- dice Julia- ho vissuto più a lungo in America che in Europa, ma non saprei dire dove appartengo. Non sono sicura che questa sia casa mia. Per gli amici americani io resto la tedesca, per i tedeschi sono americana». E anche un po’ italiana, per via della casa a Pantelleria dove trascorre vacanze sempre più lunghe. L’italiano lo parla e continua a studiarlo. «Ma per il dialetto siciliano - anzi, di Pantelleria - ho bisogno di un’immersione di qualche settimana, devo rifarmi l’orecchio». Pendolare sull’Atlantico, in media sta due mesi qui e due mesi in Europa. «In Germania ho tanti familiari, cerco di riconnettermi. Quando abbandoni il tuo nido troppo presto, diventi un’emigrante a vita.

E allora devi imparare a sentirti a tuo agio ovunque». L’allenamento mentale per vivere in questa nuova dimensione, Julia se lo è imposto anche nel suo modo di abitare. Ha trasformato il loft di Soho in un «hotel internazionale per ospiti a lungo termine» (la definizione è sua).

Affitta camere a studenti, o più spesso giovani laureati, professionisti alle prime armi. Nell’albo degli ospiti c’è di tutto: giovani medici, avvocati, giudici, artisti. A condizione che vengano da lontano. Cinesi e giapponesi, vietnamiti e indiani, pachistani e marocchini. «Da una ragazza di Marrakech mi sono fatta dare lezioni di danza del ventre. Dalle asiatiche ho imparato decine di modi diversi per cucinare le loro verdure».

Julia appartiene ancora a un’avanguardia, una élite di pionieri. Sulla propria pelle ha sentito lo strappo di chi abbandona un’identità nazionale, la metamorfosi che ti trasforma in qualcosa di nuovo, di molto più complicato. Sua figlia invece appartiene già alla razza diversa, quella che è nata dall’altra parte delle barriere identitarie. Una creatura della globalizzazione. Incapace di concepire un mondo che non sia multietnico e transnazionale: quello che è già impresso nei suoi geni dalla nascita.A 31 anni, Hana Nakamuraè tedescaamericana o americana-giapponese? La sua identità complessa le diede solo qualche sprazzo di disagio da bambina: «Ricordo quando ero a passeggio con la mamma in Germania, e le chiedevano se ero adottata».

Ma a New York i genitori la iscrissero subito alla scuola internazionale delle Nazioni Unite. «Là dentro - dice Hana - molti compagni erano proprio come me: sangue misto, razze mescolate. Io e i miei amici siamo cresciuti così, in un mondo che ci sembrava naturalmente mescolato. Con famiglie e parenti disseminati su due o tre o quattro continenti. Con lunghi voli transoceanici per celebrare compleanni e feste di Natale». Da bambina Hana oltre al tedesco imparò subito inglese, francese, italiano. Poi il giapponese al college. Gli studi l’hanno portata a Parigi, Tokyo, Budapest, Firenze. «Qualche volta - racconta - mi sono ritrovata faccia a faccia col problema della mia identità.

Ricordo un campus universitario qui negli Stati Uniti dove mi proposero di iscrivermi all’associazione degli studenti asiatici.

Guardandomi in faccia, evidentemente non avevano dubbi che appartenessi a quel gruppo. Io non ne ero affatto sicura: c’è davvero un gruppo al quale devo appartenere per forza?» Per scoprire un pezzo delle proprie radici culturali s’iscrisse al corso di Asian Studies, al college di Vassar. Fa lo stesso mestiere del padre: fotografa. Lavoraa New York in una società di graphic design, lo studio Mucca, che tra l’altro cura molte copertine di libri per le edizioni Rizzoli. Un mestiere che porta Hana a viaggiare sempre tra New York e Milano. (La nuova razza degli uomini universali nasce naturalmente immunizzata dal jetlag). «Questa vita - dice Hana - sta diventando The New Normal, la nuova normalità. Io conosco tutta gente come me. Non solo i miei ex compagni della scuola Onu, ma anche tanti amici e vicini, nel quartiere di Tribeca dove abito, hanno storie simili, mestieri globali, famiglie miste, parenti lontanissimi, stili di vita che superano le frontiere». Con il padre fotografo, che abita sempre a New York, Hana condivide i problemi e i segreti del mestiere. Lui almeno in questo obbedisce all’immagine stereotipata che abbiamo dei giapponesi: « un genio delle tecnologie», garantisce la figlia. Con mamma Julia si vedono spesso a pranzo, perché l’ufficio di Hana è a due passi da Greene Street. Consuetudini da villaggio, un’oasi d’intimità, in un’esistenza che per altri sarebbe priva di radici. La settimana prossima, il 14 febbraio, tutti a casa di mamma per festeggiare il Capodanno lunare e l’inizio dell’anno della Tigre. Ci saranno ragazze cinesi, giapponesi e vietnamite. Più una siriana-tedesca, che per quella sera ha promesso di cucinare una sua specialità. Non chiedetemi che cos’è, per favore.