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 2010  febbraio 12 Venerdì calendario

PECHINO NON CI CREDE

Qualche anno fa l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl a una cena riservata a Pechino con un altissimo funzionario cinese sollevò la questione di sanzioni contro la Corea del Nord che allora, tanto per cambiare, si sottraeva ai colloqui sul disarmo nucleare.

L’ospite cinese allargò le braccia: «Per indurre qualcuno a spogliarsi cosa è meglio fare: abbassare la temperatura e strappargli i vestiti di dosso? Oppure aumentare la temperatura fin quando, per il troppo caldo, non si spoglia da solo?». Secondo il cinese usare le sanzioni era come abbassare la temperatura e spogliare qualcuno: avrebbe provocato solo resistenza e fatica per tutti.
In questa storia c’è tutto il profondo, filosofico, scetticismo cinese verso l’uso di sanzioni, anche contro l’Iran oggi. Non si tratta solo di una teoria, secondo Pechino, ma di esperienza. La Corea del Nord, da decenni in isolamento politico ed economico, non è cambiata e anzi si è arroccata sempre di più. La Cina viceversa, accolta economicamente e politicamente nel consesso internazionale, si è trasformata profondamente.
 con questo scetticismo profondo che la Cina si appresta a votare per le sanzioni dell’Onu contro l’Iran, in sostanza solo per fare un favore all’America di Barack Obama alla ricerca di un qualche successo diplomatico da mostrare. Ci sono certamente anche spinte economiche forti: la Cina è un grande investitore nella Repubblica islamica ed è il singolo maggiore acquirente di gas iraniano. Ma anche questo impegno economico è stato dettato insieme da un calcolo di convenienza e da opportunità politica: rompere l’isolamento iraniano secondo Pechino aiuta al cambiamento del regime.
Le dichiarazioni bellicose di Teheran sul nucleare sono certo una provocazione verso gli Stati Uniti, i quali non possono che replicare. E la Cina non può sottrarsi, specie se vuole abbassare l’attuale febbre di nervosismo bilaterale con gli Usa. In queste ore Pechino è estremamente guardinga a rivelare le sue mosse e le sue intenzioni riguardo al voto sulle sanzioni. Però sembra probabile che alla fine voterà a favore, cercando di attenuarne al massimo l’impatto effettivo. Ma se aderisce (in fondo per fare un favore all’America), questo voto diventerà moneta di scambio politico con Washington.
La trattativa in queste ore sarebbe dunque in questi termini: cosa l’America è disposta a dare alla Cina in cambio della «vendita» delle sanzioni? Per alcuni americani questa Cina che mercanteggia sulle sanzioni è traditrice due volte: perché è amica dell’Iran e perché mette in vendita questa amicizia. Per la Cina invece si tratta di dover fare, in omaggio agli Usa, qualcosa di irragionevole e inutile se non dannoso. Allora, visto che lo si deve fare, almeno che gli Usa paghino un prezzo. Quindi il voto sulle sanzioni contro l’Iran diventa una moneta di scambio geopolitica in cambio di concessioni, per esempio sulle armi a Taiwan o sul Dalai Lama.
Le questioni profonde, le differenze filosofiche nell’approccio politico generale verso nazioni che non condividono la nostra visione politica, restano sullo sfondo, intatte. Ciò anche perché esistono diverse urgenze tra America e Cina. Gli Usa, incalzati anche da Israele, temono il sostegno iraniano ai vari movimenti insurrezionali sciiti del Medio Oriente, e il cambiamento degli equilibri strategici che il nucleare iraniano porterebbe nella regione. La Cina invece non ha sposato la causa di nessuno nell’area, e anzi vede la presenza Usa come un altro errore dell’America, che interviene in prima persona là dove sarebbe opportuno limitarsi al più efficiente principio del «dividere e comandare».
Francesco Sisci