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 2010  febbraio 11 Giovedì calendario

PAT METHENY

Difficile negare che Orchestrion sia un album solista. Infatti Pat Metheny ci fa tutto, ma proprio tutto. Che fosse una filarmonica su due gambe era venuto in mente a molti, ascoltando il più grande chitarrista del mondo. Ma eravamo sempre su sei corde e dintorni (molto dintorni: è arrivato a suonarne 42, sulla Pikasso da lui creata negli anni Ottanta).

Ora, la controprova: un intero ensemble - fiati, code, percussioni, mancano solo gli archi - suonato interamente da lui. Bastano una serie di pulsanti sulla chitarra, una pedaliera, un software chiamato Sibelius 6 e una serie di principi fisici, primo fra tutti il magnetismo.

Avveniristico? Manco per idea, anzi vintage che più non si può.

«Da bambino - racconta il 55enne musicista di Kansas City - in estate andavo dai nonni nel Wisconsin. Nel seminterrato c’era un vecchissimo autopiano, un pianoforte automatico di quelli che si vedono nei Western, coi rulli che scorrono e suonano di tutto.

Da quel principio erano nati gli Orchestrion, grandi insiemi di strumenti, di solito percussioni, in voga nel Novecento. Crescendo mi sono sempre domandato cosa si sarebbe potuto fare dopo gli sviluppi del jazz degli ultimi 7080 anni». Un suo primo esperimento risale al 1978, al disco, New Chautauqua, in cui sovrapponeva diverse chitarre, «ma ovviamente solo in sala incisione: dal vivo erano necessarie delle registrazioni, non era lo stesso. Stavolta ho deciso di provarci davvero, ho sparso la voce e sono stato contattato da inventori di tutto il mondo. Gente spesso davvero curiosa, ma molto abile, cui ho commissionato i macchinari».

In effetti, osservandola da vicino, questa ingombrante accozzaglia di 60 strumenti sembra uno dei marchingegni fantasmagorici e un po’ svitati di Archimede Pitagorico: i tasti di una vecchia Olivetti fanno gli accordi su tre chitarre elettriche, una cinghia di trasmissione di un’auto riempita di plettri suona un basso, meccanismi apriporte di garage battono sulle tastiere, e così via. E, proprio come i marchingegni dell’inventore di Paperopoli, alla fine funziona. Ma come, neppure Metheny lo sa. «Bisogna vedere dal vivo per capire».

La domanda da farsi più che "come" è, semmai, "perché". «La risposta è la musica stessa. Cercavo un nuovo mezzo di espressione. Il jazz vive di ricerca del cambiamento. Certo, avrei potuto usare orchestrali in carne e ossa. Ma quando andate a vedere Wall-E vi chiedete come mai non hanno usato esseri umani? Una volta John Lennon ha detto che Lucy in the sky with diamonds su disco non suonava comunque come gli era suonata in testa. Io ho voluto provare a suonare la musica come ce l’ho in testa, ecco tutto». Ed ecco perché, rispetto al disco che è fatto di cinque lunghe suite, i concerti (anche in Italia: il 24 febbraio a Bolzano, il 15 marzo a Milano, il 16 a Firenze, il 17 a Roma, il 18 a Napoli, il 19 a Bari, il 21 a Palermo e il 22 a Catania) saranno totalmente diversi, in pratica una continua improvvisazione: «solo il primo brano, che si chiama proprio Orchestrion, ha uno spartito di 200 pagine. E dal vivo ci saranno nuovi strumenti». Un ingegnere vigilerà di persona: con tutti questi ingranaggi basta anche meno del classico granello di sabbia a bloccare il macchinario.

Non è però un cambiamento di genere, ma neanche una vacanza, «è solo una stanza nuova delle mia casa musicale, qualcosa che si affiancherà agli altri miei progetti, non abbandono certo il Trio e il resto. Anzi, non so neanche se farò un secondo disco con l’Orchestrion, vedremo. E comunque fra 30 anni nessuno baderà più alla tecnica usata per fare musica, ma solo al risultato».