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 2010  febbraio 11 Giovedì calendario

I LUOGHI DEI MASSACRI TRASFORMATI IN DISCARICHE ABUSIVE

Servono scarpe buone per muoversi da queste parti. La neve si è sciolta e giù per la scarpata si cammina nel fango. Dal fondo umido della radura si sente il rumore di una cascata. Il suono è strano, quasi metallico, l’acqua è torbida. Un passo e tutto diventa chiaro. La timida luce del mattino disegna i contorni di decine di copertoni, bombole, lavatrici e materassi. Materiale da riempirci due camion interi. Più in là il torrente litiga con un rottame rovesciato, sembra una mini arrugginita. Ciò che la natura non riesce a inghiottire appare in tutto il suo disarmante spettacolo. Da terzo mondo, degno delle peggiori periferie. «Prepovedano razkladanje», divieto di discarica, ammonisce beffardo un cartello. In doppia lingua che non si sa mai.
Siamo a Trieste, sul Carso, a venti minuti dal centro, nella stessa città che un mese fa si è guadagnata il primo posto in Italia per qualità della vita, anche per l’ambiente. E che adesso, di colpo, si trova a fare i conti con una realtà per troppo tempo messa da parte, conosciuta in tutte le sue proporzioni soltanto dagli speleologi.
Sì perché le vere discariche non si vedono in superficie, sono nascoste negli abissi dell’altipiano. Una mappa precisa non c’è, tuttavia gli esperti stimano che almeno trecento grotte delle tremila esistenti su un raggio che va dalle foci del Timavo alla Slovenia, siano inquinate. E prima ancora a Gorizia e, di più forse, oltre confine.
Era il maggio del 2008, quando un gruppo di speleologi portò alla luce tre auto e quindici motorini dal fondo dei duecento metri dell’Abisso Plutone. Una discarica impressionante: trentadue metri cubi di immondizia: per liberarla furono impiegati 182 uomini per tre mesi di lavoro. Tra la spazzatura anche ossa umane. Ecco l’altro dato sconcertante: le foibe.
Nelle cavità dove al termine della Seconda guerra mondiale trovarono la morte le vittime, italiane e non, delle truppe partigiane di Tito, ora si butta di tutto. Ora? No, da decenni. «Dagli anni Sessanta il Carso è usato come pattumiera per i rifiuti - racconta Furio Premiani, presidente della federazione Speleologica triestina».
A Basovizza, giusto dietro al monumento nazionale che ricorda gli infoibati, si scorge il Pozzo dei Colombi. Una voragine che nel 1972 servì per gettare i resti dell’incendio dell’attentato all’oleodotto della Siot. Era l’epoca di Settembre Nero, oggi il pozzo è chiuso da un tappo di trenta metri fatto di nafte e morchia di idrocarburi. Adesso che comincia a delinearsi un’idea del fenomeno, e che da un po’ di giorni il caso conquista le locandine dei giornali e le aperture dei tg locali, anche la politica si interroga. Che fare? Come trovare i responsabili?
Il Corpo Forestale del Friuli Venezia Giulia non conferma, ma neanche smentisce l’apertura di un’indagine. La presidente della Provincia, Maria Teresa Bassa Poropat, chiederà finanziamenti al governo italiano e all’Unione Europea. «Per stanziare i fondi per le bonifiche manca una legge» fa notare l’assessore regionale all’Ambiente, Elio De Anna.
Legambiente, per voce del rappresentante provinciale triestino, Lino Santoro, accusa gli amministratori di allora e di adesso di «aver taciuto e di non essersi mai interessati a una questione così grave. Perché vista la particolarità del terreno gli inquinanti finiscono nelle acque sotterranee e dunque in mare. E poi - osserva Santoro indicando un grosso fascicolo - per tutelare il Carso una norma ci sarebbe: il decreto del presidente della Regione, del 20 marzo 2009, che però è inutile visto che mancano i regolamenti attuativi». Punto a capo.
Il problema non è soltanto un’eredità del passato. Abbandonare nel bosco una vecchia poltrona o una lavastoviglie da cambiare, è un’abitudine consolidata. Qui, all’estrema frontiera del Nord-Est, «Napoli non è poi così lontana» mormora qualcuno. I sentieri che portano tra i cippi della resistenza partigiana sono punteggiati dalla monnezza.
«Qua xe cussì, qui è così - commenta sconsolato un uomo con zaino e stemma del Cai sul petto». Risale a luglio la scoperta di un ammasso di eternit: cinque metri cubi scaricati vicino ai sentieri dove si porta il cane la domenica. intervenuto il nucleo radiologico dei vigili del fuoco; l’amianto è stato rimosso, al suo posto ci sono sedici frigoriferi. «Il mio Carso» scriveva Scipio Slataper. Dimenticato, scivolato via assieme alle auto scaraventate nelle scarpate. A due passi da quel cartello beffardo: «Prepovedano razkladanje, divieto di discarica».
Giampaolo Sarti