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 2009  dicembre 14 Lunedì calendario

DA EXXON A BP TUTTE LE "VITTIME" DI COPENAGHEN

All’ingresso del Bella Center dove si svolge la conferenza mondiale sul clima, c’è un’enorme sala dove si affollano gli stand promozionali di associazioni, enti, industrie, interessati all’esito del forum: gruppi ambientalisti, centri di ricerca, organizzazioni degli imprenditori dell’ecoindustria. Tutti quelli che sperano in un successo della conferenza e in un nuovo trattato postKyoto. Non ci sono stand per quelli che sperano che la conferenza fallisca e la riduzione delle emissioni resti quanto meno nel vago: i petrolieri, la lobby del carbone (salvo nella versione futuribile e pulita del "sequestro" della Co2), le compagnie aeree, quelle elettriche, cementieri, acciaierie. Insomma i grandi produttori e consumatori di energia, con annessa nuvola di anidride carbonica. Questo non vuol dire che non siano presenti a Copenhagen. Solo che si sforzano di essere poco visibili. Un intraprendente redattore di un sito ambientalista (Grist) è riuscito a rintracciare Brian Flannery, il consulente in capo per il clima della ExxonMobil, la maggior compagnia petrolifera globale, nonché l’azienda che guida regolarmente la classifica annuale dei profitti nel mondo. E’ qui nella veste di vicepresidente della Commissione per l’ambiente e l’energia della Camera di Commercio Internazionale. Ma la verità è che il grosso del loro lavoro gli oppositori di interventi drastici sul clima l’hanno fatto in patria. Negli Usa l’anno scorso le compagnie elettriche hanno speso 20 milioni di dollari in attività di lobby, le miniere di carbone 3,4 milioni e i petrolieri 35 milioni che, secondo alcune indiscrezioni, nel corso di quest’anno (c’è una legge sul clima in discussione al Congresso) sarebbero arrivati a 300 milioni. Dietro questo lavorio c’è, tuttavia, una situazione assai diversa da quella degli anni di Bush, quando la parola d’ordine era il diniego secco del riscaldamento globale. La Camera di Commercio americana (3 milioni di imprese) ha diffuso un singolare documento, in cui non si nega l’effetto serra ma se ne sottolineano i vantaggi (più acqua, climi più temperati) per le regioni settentrionali. La Exxon, che ha a lungo finanziato thinktank di scettici del riscaldamento globale, si dichiara favorevole ad una tassa sulle emissioni di anidride carbonica (un obiettivo più difficile del mercato dei diritti alle emissioni). L’obiettivo non è più fermare un accordo internazionale sul clima, ma annacquarlo, rallentarne tempi e scadenze, renderlo meno stringente.
Questo riflette interessi divergenti fra i settori più riluttanti nei confronti di un accordo sul clima. Secondo l’Fmi le vittime potenziali di un accordo globale si riducono "ad un pugno di aziende ad alta intensità di energia, esposte alla concorrenza internazionale". il caso delle acciaierie e delle raffinerie che temono di veder applicato nei paesi sviluppati un regime più stringente di quello adottato nei paesi emergenti, con il risultato di favorire i concorrenti cinesi, indiani o coreani. Negli altri settori, prevale un atteggiamento ambivalente perché un’energia più pulita è un costo ma anche un’opportunità in termini di maggiore efficienza e di nuovi mercati. Le compagnie aeree, grandi emettitori di Co2, sanno che i loro bilanci sono legati alla quantità di carburante che riescono a risparmiare, e così hanno varato un piano internazionale che dovrebbe aumentare da qui al 2020 dell’1,5% l’anno l’efficienza nell’uso del combustibile.
Intanto Bmw, Mercedes, Audi hanno montato un’aspra battaglia per salvaguardare le auto di lusso, bandiera della produzione tedesca, da regole troppo stringenti sulle emissioni di Co2. Eppure l’auto è fra i più impegnati settori industriali nell’affrontare le sfide del futuro: diesel ultraefficienti, auto all’idrogeno, macchine elettriche. Nessuna delle grandi case vuole perdere il treno dell’imminente rivoluzione dell’auto. Anche Big Oil non vuole essere tagliato fuori. Giganti come Bp e Shell decurtano gli investimenti nelle energie alternative, come il solare, ma sono impegnate in prima fila nello sviluppo dei biocarburanti di seconda generazione, quelli che dovrebbero consentire di ottenere combustibile dagli scarti vegetali. Piuttosto che dai frutti delle piante, come avviene oggi, con conseguenze devastanti per la produzione agricola. Ed è ancora più vero per le grandi compagnie elettriche, preoccupate di salvaguardare i loro impianti a carbone e a gas, ma attirate dalle opportunità che offrono le energie senza emissioni, come il nucleare, il vento, le centrali a specchi solari.
In realtà la quota di investimenti che le compagnie automobilistiche destinano alla macchina del futuro, Big Oil ai biocarburanti, le compagnie elettriche alle energie alternative (con la possibile futura eccezione del nucleare) è modesta, rispetto ai fondi assorbiti dalle attività tradizionali. Non è solo cattiva volontà ma l’effetto dell’assenza di un accordo globale sulle emissioni. Una vecchia regola dell’economia insegna che il mondo delle aziende può sopportare tutto, basta che sappia di cosa si tratta. E quello che l’economia chiede ai leader a Copenhagen sono certezze sulle quali poter disegnare la propria gestione e i propri investimenti. Un sondaggio dell’Economist mostra che il 56% delle aziende chiede, in materia di politica del clima, "più regole". E’ il senso anche del "Comunicato di Copenhagen contro i cambiamenti climatici", sottoscritto da un migliaio di aziende. Ce ne sono poche dall’Asia (Fujitsu, Cathay Pacific), ma molte dall’Europa (Air France, Barilla, Basf, Bp, Edf, Enel, E.On, Lukoil, Peugeot) e dagli Usa (Coca Cola e Pepsi, Ge, Hp, Johnson&Johnson, Kraft, Procter&Gamble, Shell). Il comunicato chiede "un limite massimo delle emissioni globali", con obiettivi intermedi da qui al 2050. E "impegni forti, più alti della media globale, per i paesi industrializzati".
Forse il segnale più rivelatore viene da un articolo che James Murdoch ha scritto per il Washington Post. E’ un appello alla destra americana, perché accetti la sfida del riscaldamento globale. Basta con la dipendenza dal petrolio, scrive il giovane Murdoch. Bisogna evitare di cedere ai cinesi, "senza neanche combattere", i mercati legati all’energia pulita. E’ inutile polemizzare sui costi immediati di una transizione all’energia pulita, "senza considerarne i benefici a lungo termine o calcolare i costi di continuare come adesso". "Una politica intelligente corregge i fallimenti del mercato e fornisce certezze, stimolando gli investimenti in tecnologie e infrastrutture". Obiettivo: "scatenare la concorrenza, per assicurare che le aziende più pulite prosperino e quelle più sporche portino le loro responsabilità". Scritto dall’erede della famiglia che possiede FoxNews e il Wall Street Journal, portabandiera, fino ad oggi, della polemica sull’effetto serra e della battaglia contro un accordo a Copenhagen, può sorprendere. Ma il mondo cammina.