Edoardo Mezza, CorrierEconomia, 14/12/2009, 14 dicembre 2009
IL «NOIOSO» PIANO DI ACCUMULO HA SALVATO IL DECENNIO NERO
Ancora due settimane e, finalmente, il peggior decennio borsistico che si ricordi chiuderà i battenti, dopo aver consegnato al risparmiatore eventi dagli impatti tragici per gran parte dei suoi investimenti. E dopo aver disegnato scenari diametralmente lontani da quell’economia dai «riccioli d’oro» che, alla vigilia del nuovo millennio, era stata, invece, tratteggiata con colori caldi ed invitanti.
Basti dire soltanto che il decennio perso ha ospitato due delle peggiori quattro crisi degli ultimi ottant’anni: la bolla high tech tra il marzo 2000 e il settembre 2002 (meno 48% per l’indice mondiale) e quella del credit crunch tra l’ottobre 2007 ed il febbraio 2009 (meno 50%).
Il carattere eccezionale di quest’ arco di tempo ha messo a dura prova tutte le strategie d’investimento. Ad aver resistito meglio, paradossalmente, è stata la vecchia e noiosa tecnica del piano d’accumulo, quella da portare avanti con passo fermo, nel bene e nel male, senza mai lasciarsi prendere dalle lusinghe dei mercati rialzisti o dalle ansie indotte da quelli Orso.
La ricetta
Per un europeo che, nel dicembre 1999, avesse avviato un piano mensile, investendo un 70% in titoli di Stato euro e il restante 30% nell’indice delle borse mondiali, questo periodo si sarebbe concluso con una delusione, ma con un trauma modesto.
Ad oggi, quel piano starebbe, infatti, guadagnando comunque 16 euro per ogni 100 investiti (con una performance annua dell’1,5%, contro un’inflazione media europea del 2,0%). Dei 120 versamenti effettuati, 117 registrerebbero un utile e soltanto 3 sarebbero in perdita. In particolare, la componente obbligazionaria accumulerebbe un +30%. Quella azionaria, invece, incasserebbe un -18%: un dato, quest’ultimo, decisamente migliore, quindi, del -43% subito da chi avesse comprato solo azioni e, per giunta, tutte in una volta.
Questi orribili ultimi dieci anni hanno, dunque, spazzato via molte delle certezze proposte dai nuovi paradigmi della finanza, ma non sono riusciti a smantellare i principi di base degli investimenti finanziari: diversificazione e accumulazione progressiva.
Miscelare azioni ed obbligazioni all’interno di un semplice programma sembra confermarsi, insomma, sempre vantaggioso, anche nel corso delle tempeste peggiori. Diversificazione e piano d’accumulo avrebbero prodotto risultati più che decorosi nel decennio precedente (dicembre 1989-dicembre 1999), quello delle borse esuberanti e, ancora, della bassa inflazione (2,46% in media tra il 1991 ed il 1999 per l’Euro).
La performance totale di quel piano sarebbe stata, infatti, del 92% (che, su base annua, corrisponde ad un 6,7% circa). In termini di potere d’acquisto, il risparmiatore sarebbe stato, quindi, premiato, con un 4% reale all’anno.
Ad uscirne malconcia è, invece, l’altra regola aurea: il lungo termine. Dall’esempio sembrerebbe, infatti, che dieci anni possano non bastare a generare sistematicamente una crescita del capitale versato. In particolare, ad essere posta in discussione è l’idea che le azioni, su intervalli di tempo estesi, remunerino l’investitore con un rendimento più alto di quello ottenibile con strumenti privi di rischio. Quanto dev’essere lungo, allora, il lungo termine perché questa regola funzioni?
In lungo
Il fatto è che il lungo termine al quale fa riferimento la teoria per sostenere questo primato delle azioni, è costruito su archi di tempo ben più ampi dei soli 120 mesi dell’ultimo, sfortunato, decennio. Ma chi potrebbe accettare con serenità di costruire piani d’investimento convincenti su orizzonti ancora più ampi? E sulla base di quali strumenti previsionali, vista la stessa crescente incertezza in cui siamo chiamati a vivere?
Dieci anni rappresentano appena un attimo, quando riferiti ai cicli ed alle ere geologiche delle borse, ma costituiscono, invece, quasi un terzo della vita lavorativa dell’uomo della strada che affida ai mercati le sorti della propria pensione. E che, ora, si interroga su che cosa aspettarsi ragionevolmente dai mercati, ancora alle prese con una crisi d’identità con pochi altri precedenti.