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 2009  dicembre 14 Lunedì calendario

SOCIALDEMOCRAZIA ULTIMO ATTO

Non so quanti e quali libri del tedesco anglicizzato Lord Dahrendorf, tormentato analista delle moderne società industriali, recentemente scomparso, suscitino ancora un interesse d’apprendimento fra gli studiosi d’ultima leva. Oserei però esprimere, più che l’impressione, la certezza che della sua monumentale indagine critica della modernità resterà vivo e discusso soprattutto il corollario di una lapidaria constatazione di decesso. «La fine dell’era socialdemocratica».
Dahrendorf ne aveva intuito il declino epocale ancor prima del travolgente crollo comunista d’Oriente. Crollo tutt’altro che isolato o privo di conseguenze che, secondo lui, non poteva non stingere e ripercuotersi anche sulla tenuta e il prestigio tradizionale dei partiti socialisti europei. Il collasso del 27 settembre della socialdemocrazia tedesca, la più antica d’Europa, che nel 2013 celebrerà un secolo e mezzo d’esistenza, è stato in effetti un evento di disastrosa portata continentale.
Si direbbe che nel 20° anniversario della fine del Muro, questo sia caduto una seconda volta addosso ai socialdemocratici, non tutti favorevoli alla riunificazione, sprofondandoli in un torpore di stordimento quasi comatoso. Si direbbe, perfino, che il recente editto polacco contro l’esibizione di bandiere con falce e martello abbia vibrato un colpo di grazia emblematico all’insieme della sinistra germanica. Spd allo sbando, Verdi in disarmo, Linke in crescita sull’onda della protesta ma priva di mordente perché erede degli stendardi rossi dell’Est.
Certo, si ha l’impressione di contemplare un glorioso percorso storico giunto al capolinea. A partire dai disagi della Seconda Internazionale, la sfortuna e la contraddizione hanno sempre accompagnato in particolare la socialdemocrazia tedesca. Essa, che nel 1891 aveva stilato a Erfurt un fondamentale documento d’avanguardia per i movimenti operai europei, venne poi sistematicamente aggredita tanto da sinistra quanto da destra. L’ex socialdemocratico Lenin, divenuto dirimente icona bolscevica, la attaccò come un covo antisovietico manipolato dal «rinnegato» Kautsky; Stalin ne bollò i dirigenti come «socialfascisti»; Hitler dette man forte a Stalin decimandola e definendola «una banda di senzapatria orchestrata da perfidi intellettuali ebrei».
Ma la messe di calunnie, scagliate in particolare dai comunisti, non riuscì tuttavia a cancellare l’originario marchio di sinistra di un partito creato da un versatile Lassalle vicino a Marx e guidato in seguito dall’eccezionale talento politico e culturale di Kautsky. Nemmeno il definitivo congedo della Spd dal marxismo, celebrato negli anni 50 a Bad Godesberg, riuscirà a obliterarne completamente l’ombra ideologica. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che, in tempi più vicini, un estremista reiterato e ambiguo come Oskar Lafontaine possa essere stato presidente socialdemocratico, nonché ministro del governo Schröder, prima di diventare presidente di una Linke farcita di dirigenti comunisti provenienti taluni addirittura dalla Stasi.
Oggi, dopo che l’elettorato tedesco, premiando i liberali, ha decretato l’espulsione dei socialdemocratici dalla coalizione con i conservatori, la confusione e l’incertezza dilagano a sinistra. Il partito sceso al 23%, il più basso dopo la seconda guerra, ha punito il presidente sconfitto, l’ex vicecancelliere Steinmeier, sostituendolo con un corpulento e poco noto Sigmar Gabriel. Si dice di costui che sappia parlare molto e ascoltare meno. Insomma un demagogo tonitruante, che promette più democrazia interna, più rispetto della base frustrata, più egualitarismo nel trascurato gergo di partito: «La parola compagno deve tornare in uso anche se ci rivolgiamo ai presidenti e ministri nei Länder in cui governiamo». I 500 delegati depressi, taluni disperati, che al recente congresso di Dresda lo hanno eletto con una maggioranza del 94,2%, desideravano a ogni costo vedere in lui un salvatore. L’hanno soprannominato «Arcangelo Gabriele».
Ma del cambiamento che tutti vogliono, della rinnovata linea politica che tutti rivendicano, a Dresda non s’è capito molto. I mea culpa si sono abbattuti genericamente sulla retorica fraintesa della «Mitte», il Nuovo Centro, bacino elettorale del ceto medio, già invano cercato da Schröder e mai trovato da Steinmeier. Il salvifico Gabriele ha ammesso che il partito, bloccato in una posizione di debolezza nell’abbraccio governativo con i conservatori della Cdu-Csu, ha finito col prendere lucciole per lanterne: «Invece di definire meglio il traguardo e il bacino del Centro, che ci proponevamo di conquistare, abbiamo ridefinito al ribasso noi stessi secondando l’ideologia di un libero mercato caotico e punitivo verso i più bisognosi. Ha ragione chi dice che gli ex comunisti della Linke hanno saputo sfruttare meglio il discredito che ormai grava sul capitalismo».
Che farà ora la Spd amputata dal voto, abbandonata a partire dal 1998 da 260 mila iscritti? Riuscirà ancora a sopravvivere come principale forza politica della sinistra? Dopo la deludente grande coalizione con i neri, tenterà forse di cementare un blocco con la Linke nel parlamento federale o di governo nei Länder orientali mediante la formula «rot-rot», rosso su rosso, già in difficoltosa e contestata prova di rodaggio nel Brandeburgo?
Ma qui veniamo al punto dolente. Formula contestata soprattutto da chi? Nientemeno che dal massimo leader in crisi della stessa Linke: l’eternamente ondivago Oskar Lafontaine, definito «Zugpferd» o «cavallo da tiro» dell’estrema sinistra che, senza il suo carisma, non avrebbe certo ottenuto l’inaspettata affermazione elettorale di settembre. stata però una vittoria di Pirro. All’abile Lafontaine è riuscito di far spiccare un salto di quantità a una formazione di qualità politica eterogenea e raccogliticcia: una confusa ammucchiata di politicanti riciclati dell’Est e dell’Ovest, pragmatici, fondamentalisti, veterocomunisti reazionari e settari. Sennonché il mastice Lafontaine, che per alcune settimane aveva conferito al conglomerato un corpo visibile, appena chiuse le urne ha voltato per l’ennesima volta le spalle a una squadra di temporanei compagni di trincea. Si è scontrato con i comunisti della ex Ddr, si è complicato la vita privata tra una moglie occhiuta e un’amante ambiziosa, ha minacciato le dimissioni dall’incarico di capogruppo parlamentare al Bundestag e, annunciando l’insidia di un tumore, ha fatto intendere che potrebbe abbandonare anche la presidenza del partito. Ha sbattuto la porta, non lo si è più visto alle riunioni, si è rintanato nel suo vecchio feudo della Saar lasciando il partito nelle mani di funzionari Ossis sospetti e poco attraenti come Gysi e Bisky. Non è certo con alleati del genere che la Spd potrà sanare le ferite della disfatta.
I socialisti intanto scendono nel Parlamento europeo, declinano in Inghilterra, si sarkosizzano in Francia, indietreggiano in Spagna. Mentre i socialdemocratici in Germania sembrano davvero precipitati all’ultimo girone della loro storia.