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 2009  ottobre 14 Mercoledì calendario

L’ABATINO BERRUTI

«Ho sognato di scrivere questo articolo per tutta la mia vita». Così, concedendosi la necessaria retorica, Gianni Brera avvia il pezzo che celebra su Il Giorno del 4 settembre del ’60 la vittoria di Livio Berruti nei duecento piani alle Olimpiadi di Roma, un trionfo che le immagini di repertorio hanno reso leggendario, con il volo augurale dei colombi che accompagna il rettifilo del campione piemontese. «Furono dieci secondi così tormentosi da stupirmi ancora adesso di averli potuti superare. Infine scorsi il filo di lana tendersi sul suo petto: e Berruti cadere. E forse baciare la terra; e il pubblico urlare per lui che aveva vinto. (...) Dovremo ricordarci di questo giorno. Lo sport italiano non ne ha mai vissuti di più esaltanti nella sua storia, che pure è molto notevole».
La cronaca è tratta da un volume atteso da tempo, L’abatino Berruti. Scritti sull’atletica leggera (BookTime, «I libri di Gianni Brera», postfazione di Paolo Brera, pp.332, € 18.00) introdotto da un giovane e valoroso storico dello sport quale Sergio Giuntini. Qui va ricordato come Brera, noto al grande pubblico soprattutto per gli scritti di calcio e di ciclismo, viene assunto giovanissimo alla Gazzetta dello Sport, nel 1945, per occuparsi invece di atletica leggera. Direttore è in quel momento Bruno Roghi, dannunziano e melomane, ma il giornale ha bisogno di svecchiarsi e di farsi perdonare i trascorsi fascisti e repubblichini. Brera non sa nulla di atletica perché viene dal calcio, dal pugilato e dal paracadutismo; è un ex partigiano, un uomo fiero della sua indipendenza, e dunque si mette a studiare con perfetta umiltà quello che scopre essere lo sport di base dove emergono con evidenza i problemi ereditari di un paese povero e gli stenti di una democrazia neonata.
Promosso direttore della Gazzetta ad appena trent’anni, nel ’49, ha già al suo attivo un manuale storico-tecnico, Atletica leggera, scienza e poesia dell’orgoglio fisico (Sperling & Kupfer 1949) cui ne seguiranno altri fra cui, bellissimo e scritto a quattro mani con Sandro Calvesi, Atletica leggera, culto dell’uomo (Longanesi 1964). Intanto ha preso a scrivere (o ne ha avuto finalmente libertà) degli sport prediletti, ma l’atletica rimane per lui un riferimento fisso, anzi lo standard su cui computare il fondo agonistico ed il rilievo tecnico delle discipline popolari. Non è un caso che l’epiteto di «abatino» riferito a Berruti nel ’60 sia ancora un semplice vezzeggiativo e preceda di anni quello riferito, in accezione negativa, a Gianni Rivera, cui il teorico del calcio all’italiana rimprovera uno stile così aggraziato da nascondere sia la scarsa mobilità sia un più complessivo deficit atletico.
Qui va detto che il futuro poeta epico di Fausto Coppi e di Luigi Riva lega il proprio nome ad una serie di figure eponime dell’atletica italiana, fin dalle Olimpiadi londinesi del 1948, le prime cui partecipa da inviato speciale; è il caso per esempio del discobolo veronese Adolfo Consolini che Brera vede vincere a Londra in una gara belluina, costruita nel riserbo e nella forza tellurica come si trattasse della dinamica del catenaccio, anzi del «santo» catenaccio, virtù salvifica degli italiani malnutriti e scaltri, sempre poveri e male in arnese ma propensi alle astuzie di Bertoldo: «Al secondo turno Consolini forza la macchina; la pedana è già mal ridotta dalla pioggia e dalle zampate dei dodici concorrenti, ma il campione della Pirelli si volge leggermente a sinistra per trovare terreno meno smosso e lancia con ottima scioltezza a 52,78. La folla, non meno di 80.000 persone, comincia ad allibire...».
Scriverà tante volte, citando una massima del Guicciardini, che riporre fiducia preventiva negli italiani comporta delusione immancabile. Ed è vera la reciproca. Perché non c’è un filo di sciovinismo negli articoli di Brera ma (con l’ovvia indulgenza, che sentiamo retrospettivamente ambigua, per la «padanità» materna...) c’è semmai un credito costante ed una motivata ammirazione nei riguardi dei campioni stranieri: è il caso del grande Zatopek, recensito ai giochi olimpici di Helsinki (’52), come è il caso di Bikila, di Carl Lewis e moltissimi altri. Basti infine rammentare l’episodio che nel ’54 segna il suo congedo dalla Rosea: nonostante gli ufficiosi interdetti della guerra fredda, mette in prima pagina il record mondiale sui cinquemila metri del sovietico Wladimir Kutz, però il conte Bonacossi, proprietario del giornale, non gradisce e, sospettando il direttore di filocomunismo, di fatto lo induce alle dimissioni. Rispetto per la propria indipendenza intellettuale/professionale e amore per l’atletica andranno, per Brera, sempre di pari passo: si vedano i ritratti e le cronache redatte con varia intermittenza nei fogli successivi, da Il Giorno a Il Guerin Sportivo, da il Giornale (di Indro Montanelli, beninteso) a la Repubblica.
L’abatino Berruti consiste in una antologia cronologicamente ordinata con un’appendice di pagine storiche e teoriche dalle opere in volume. Quando si occupa di atletica, va rilevato, la pagina di Brera è paradossalmente meno ricca di innesti e meno giocata sugli effetti del plurilinguismo o sugli apporti gergali delle più disparate discipline (storia patria, enogastronomia, letteratura, belle arti ecc.). Più referenziale, meno sbrigliatamente inventiva di quando non parli di calcio o di ciclismo, essa pare darsi in esclusiva la finalità della nuda descrizione, la mimèsi dei gesti agonistici allo stadio primordiale. Chi conosce e ama la prosa di Brera sa che non si tratta di una diminuzione, in termini linguistico-stilistici, ma, al contrario, di una chance ulteriore o dell’ennesima risorsa , la più severa e inaspettata, di una scrittura sempre imprevedibile. Per parte sua, L’abatino Berruti è un volume corposo, inclusivo di testi rarissimi, talora tra i più belli dello scrittore di San Zenone Po, un libro ben introdotto da Giuntini e da Paolo Brera (che fornisce un ricordo affettuoso del padre) ma tuttavia va segnalata una carenza di filologia nella curatela, perché non c’è una tavola delle fonti né sono espliciti i criteri della selezione.
Peraltro, a diciassette anni dalla sua scomparsa, non è ancora disponibile una compiuta bibliografia degli scritti di Gianni Brera, impresa difficile, persino improba data la vastità e la dispersione, ma che sarebbe decisamente utile sia per i lettori sia per gli studiosi. Chissà che giacimento aurifero dorme ancora nell’emeroteca breriana. Basta aprire a caso una delle pagine dedicate all’atletica («lo sport più sinceramente umano», parole sue) e finalmente recuperate.