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 2009  ottobre 14 Mercoledì calendario

IL DOLLARO NON MORTO MA NON STA TROPPO BENE

Questa è la stagione del panico per il dollaro. Sono in molti a seminare terrore: fanatici dell’oro, sforbiciatori della spesa pubblica e tanti altri, tutti concordano sul fatto che il dollaro, la valuta dominante fin dai tempi della prima guerra mondiale, ormai ha i giorni contati. Si prepara un tracollo da iperinflazione. C’è qualcosa di fondato in tutto questo? No. Ma è vero che un sistema monetario basato sul dollaro è deficitario. Sarebbe bene cominciare a costruire sistemi alternativi.
Meglio partire da quello che non sta succedendo. Nel recente panico finanziario i bambini sono corsi dalla mamma, anche se erano stati in buona parte i suoi errori a contribuire alla crisi. E il dollaro è cresciuto di valore. Mano a mano che è tornata la fiducia, la tendenza si è invertita. Il dollaro si è apprezzato del 20% tra il luglio del 2008 e il marzo di quest’anno. Da quel momento in poi ha perso buona parte di quello che aveva recuperato. Ma la discesa del dollaro è un sintomo di successo, non di fallimento.
Ci sono segnali più profondi di un imminente abbandono del biglietto verde da parte del resto del mondo? Un indicatore molto usato è il prezzo dell’oro, che è quadruplicato dall’inizio del decennio. Ma è un indicatore poco affidabile per prevedere i rischi di inflazione: il picco precedente fu nel gennaio del 1980, e subito dopo l’inflazione venne domata.
Un prezzo più alto dell’oro riflette la paura, non la realtà. E questa paura non è così diffusa. Il governo americano riesce a prendere soldi in prestito al 4,2% per 30 anni e al 3,4% per 10 anni. Durante le crisi, le aspettative di inflazione implicite nel divario di rendimenti fra titoli convenzionali e titoli protetti dall’inflazione sono precipitate. Successivamente sono risalite, e anche questo è un segnale di successo. Ma sono ancora al di sotto dei livelli di prima della crisi. Il pericolo immediato, considerando la capacità produttiva in eccesso negli Stati Uniti e nel mondo, non è l’inflazione ma la deflazione. L
a correzione del dollaro non è semplicemente un evento naturale. un evento utile. Ridurrà il rischio di deflazione negli Stati Uniti e faciliterà la correzione degli "squilibri" globali che hanno contribuito a provocare la crisi. Concordo con un articolo che pubblicherà prossimamente Fred Bergsten, del Peterson Institute for International Economics, quando sostiene che "gli enormi afflussi di capitali esteri negli Stati Uniti hanno facilitato l’eccessivo incremento della leva finanziaria e «l’underpricing del rischio». Anche chi è scettico al riguardo è d’accordo sul fatto che gli Stati Uniti hanno bisogno di una crescita trainata dall’export.
In conclusione, che cosa può sostituire il dollaro? A meno che e fino a quando la Cina non rimuoverà i suoi controlli valutari e non svilupperà mercati finanziari liquidi ed estesi probabilmente ci vorrà ancora una generazione l’unico serio concorrente del dollaro è l’euro. Allo stato attuale, il 65% delle riserve mondiali sono in dollari e il 25% in euro. Sì, le proporzioni poterebbero va-riare, ma probabilmente sarà un processo lento. Anche l’Eurozona ha deficit di bilancio e debiti pubblici elevati. Fra trent’anni il dollaro ci sarà ancora,mentre la sorte dell’euro è più incerta.
Forse è una visione troppo compiaciuta. Il pericolo di un crollo del dollaro è basso e il pericolo che venga sostituito da un’altra valuta ancora di più. Ma un sistema monetario globale che si appoggia sulla valuta di un unico paese è problematico, sia per chi la emette sia per chi la usa. E i rischi sono in aumento, specialmente da quando è emersa "Bretton Woods II", cioè la pratica di gestire i tassi di cambio rispetto al dollaro. Negli anni 60, Robert Triffin, un economista belga-americano, sosteneva che un sistema monetario globale basato sul dollaro aveva un difetto: la maggiore liquidità che il mondo ricercava comportava deficit delle partite correnti negli Stati Uniti. Ma prima o poi l’eccesso di passività monetarie avrebbe minato la fiducia nella valuta chiave. Questa visione - nota come il "dilemma di Triffin" - si rivelò premonitrice: il sistema di Bretton Woods cadde nel 1971. A rigor di logica, creare riserve era possibile: bastava che il Paese della valuta chiave prendesse in prestito a breve termine e prestasse a lungo termine. Ma nella pratica, la domanda di riserve ha generato deficit della bilancia corrente nel Paese emettitore. In un regime di cambi fluttuanti, accumulare riserve non dovrebbe essere necessario. Ma dopo le crisi finanziarie degli anni 90, i Paesi emergenti hanno deciso che dovevano perseguire una crescita trainata dalle esportazioni e mettersi al riparo dalle crisi. La conseguenza diretta è stata che i tre quarti delle riserve valutarie sono stati accumulati solo in questo decennio.
Ma proprio questa ricerca di stabilità rischia di creare instabilità sul lungo termine. Le autorità cinesi sono preoccupate per il rischio che corre il valore delle loro smisurate riserve in dollari, rischio che, secondo la logica di Triffin, è la loro stessa politica ad aggravare. Le autorità americane possono anche ripetere il mantra del dollaro forte, ma è un’aspirazione senza uno strumento. Le misure che contano a questo riguardo le prende la Federal Reserve, che non ha il mandato di preservare il valore esterno del dollaro. L’unico modo che hanno i governanti di Pechino di preservare il valore interno delle riserve esterne è sostenere il dollaro a oltranza, e questo comprometterà la stabilità monetaria interna cinese e in ultima analisi si rivelerà controproducente.
 qui che convergono i timori diffusi sulla stabilità monetaria Usa e sul ruolo esterno del dollaro. Una raccomandazione tipica a proposito del primo punto è quella di mantenere l’indipendenza della Federal Reserve e garantire la solvibilità a lungo termine dello Stato. Se aumentano i timori che una delle due cose - o peggio ancora, tutte e due sia in pericolo, potrebbe scatenarsi una crisi che si autoalimenta. Il dollaro potrebbe precipitare e i tassi di interesse a lungo termine schizzare alle stelle. In una crisi del genere, si potrebbe temere, una Federal Reserve non pienamente indipendente sarebbe costretta ad acquistare debito pubblico, e questo accelererebbe il fuggi fuggi dal dollaro.
Le due precondizioni indispensabili per una stabilità sul lungo termine, quindi, sono una Banca centrale dotata di un’indipendenza credibile e uno Stato solvente, e gli Stati Uniti sembrano soddisfare entrambe.
Eppure è troppo semplice. La maggior parte degli analisti dà per scontato che la situazione di bilancio degli Stati Uniti possa essere determinata indipendentemente dalle decisioni prese altrove. Ma se il settore privato cercherà di ridurre l’indebitamento in un arco di tempo lungo (e dunque spenderà molto meno del proprio reddito), mentre il resto del mondo vorrà accumulare attività denominate in dollari come riserve, il Governo Usa emergerà naturalmente come prestatore di ultima istanza. Un corollario del dilemma di Triffin è che il ruolo internazionale del dollaro potrebbe rendere più difficile per gli Stati Uniti gestire efficacemente i propri problemi di bilancio, anche se vi fosse l’intenzione di farlo.
Arrivo, per una strada un po’ diversa, alla stessa conclusione di Bergsten. Il ruolo globale del dollaro non è nell’interesse degli Stati Uniti. Gli argomenti per passare a un sistema diverso sono molto forti. Ma non perché il ruolo del dollaro sia in pericolo, bensì perché intralcia la stabilità interna e globale. Il momento delle alternative è arrivato.