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 2009  ottobre 15 Giovedì calendario

HO FINALMENTE LETTO UN LIBRO DI MOCCIA. POTEVO EVITARMELO


Dopo averlo visto in pile alte collocate in prima fila in moltissime librerie e persino nelle cartolerie anche di piccoli paesi sperduti, trionfante negli autogrill, ai primi posti delle classifiche dei libri più venduti, sono caduta anch’io, e mi sono comprata l’ultimo romanzo di Federico Moccia, "Scusa ma ti voglio sposare". Non avevo letto altri libri né visto film di Moccia - che è figlio di Giuseppe, e cioè di Pipolo, sceneggiatore con Franco Castellano di molti film di Totò, e lui stesso sceneggiatore soprattutto televisivo - ma non ho nulla contro i romanzi rosa, e quindi mi sono gettata avidamente nella lettura.
Nonostante i capitoli brevissimi, i dialoghi di intere pagine composti da frasi quasi telegrafiche e l’ovvietà della trama - due innamorati che decidono di sposarsi ma incontrano ostacoli, fino alla conclusione "rosa" - che del resto caratterizza tutto il genere, costituendone anzi il bello e la garanzia, il libro mi è risultato però un po’ faticoso. E questo perché il romanzo è noioso: non solo è difficile, almeno per più della metà del volume, orientarsi in una selva di personaggi terribilmente simili e che usano lo stesso linguaggio - nel quale la ripetizione ossessiva della parola "amore" costituisce una continua e monotona garanzia di appartenenza al genere rosa - ma soprattutto per il continuo susseguirsi di marche di vestiti e birre, moto e auto, addirittura di indirizzi di ristoranti, bar e pasticcerie alla moda, e, ancora, di titoli di dischi e film, di nomi di cantanti e attori.
Più che un romanzo, insomma, sembra un ricco e aggiornato manuale di "consigli per gli acquisti", una sorta di libretto di istruzioni per diventare, nel modo più banale possibile, alla moda. Alla moda secondo i ragazzi della borghesia dei quartieri di Roma nord, ma che forse diventerà, grazie soprattutto al film che seguirà il successo del romanzo, moda nazionale. La vicenda si dipana così faticosamente fra i nomi delle marche, quasi tutta a Roma per l’appunto, ma con qualche trasferta vacanziera, vissuta o ricordata, descritta esattamente come nel dépliant di un’agenzia di viaggi (shopping compreso, naturalmente).
E non bisogna pensare che, in questo mondo dorato dei continui acquisti, manchi la cultura: alcuni personaggi, fra cui il protagonista, si esprimono a citazioni, più o meno pertinenti, ma che spaziano tra filosofi e poeti di tutto il mondo e di tutti i tempi a costituire un prontuario buono per ogni occasione, che permette di fare una discreta figura ai maschi che si vogliono "intellettuali", mentre gli altri, i belli palestrati, non ne hanno bisogno. E alle ragazze basta la solita frase di Wilde - «resisto a tutto tranne che alle tentazioni» - che apre la strada a prevedibili sviluppi. I dialoghi più impegnati sono così una gara di citazioni, al riparo da qualsiasi ragionamento non dico originale, ma almeno personale.
Pensavo che, almeno, ne avrei ricavato un’idea dei giovani urbani e borghesi di oggi, al di là delle informazioni sui loro consumi, ma non è così: i personaggi sono tutti falsi, tutti benestanti se non ricchi e belli, i lavori che fanno sono quelli sognati da tutti - il pubblicitario, il disegnatore di moda, il fotografo, il maestro di discipline orientali in palestre per signore - e così l’università che molti di loro frequentano. Perfino una vicenda parallela, che potrebbe avere qualche cosa di realistico, e cioè una giovane coppia che si trova di fronte a una gravidanza imprevista, è risolta nel più banale dei modi: con l’acquisto di una graziosa tutina da neonato. Fuori luogo, naturalmente, qualsiasi paragone con il bel romanzo di Hornby sul tema.
In tanta falsità l’unica cosa che ha qualcosa di vero è l’ossessione della gelosia che tocca tutti e che sembra l’unico serpente capace di avvelenare un mondo altrimenti felice di libero amore e di consumatori belli e sani. infatti solo la gelosia a giustificare il matrimonio, e sono solo le tentazioni sessuali, abbondanti e attraenti, a metterlo in pericolo, in una visione straordinariamente appiattita dei rapporti umani.
Ma questo mio ragionamento - a cui molto probabilmente non è estranea una sana invidia per le copie vendute - è inutile: oggi basta che un prodotto, artistico o meno, abbia un pubblico per essere considerato di valore. E ogni critica viene considerata una minaccia insensata, in un mondo in cui le leggi culturali sono dettate dal mercato. E questo tipo di cultura, del tutto omogenea con quella espressa dai talk show televisivi di successo, e priva di ogni percezione di valori come di ogni osservazione sulla realtà, rappresenta solo il desiderio: i lettori di Moccia vorrebbero vivere come i suoi personaggi. Non resta allora che riflettere sul poco coraggio, sulla poca speranza, sulla poca stima di sé che un simile desiderio rivela.