Federico Fubini, Corriere della Sera 14/10/09, 14 ottobre 2009
Cede il dollaro, per l’oro è record - Speculazione sulla moneta Usa: ieri a 1,48 euro, come ai tempi del crac Lehman - Era uno sport delle isole del Pacifico, ma sta diventando globale
Cede il dollaro, per l’oro è record - Speculazione sulla moneta Usa: ieri a 1,48 euro, come ai tempi del crac Lehman - Era uno sport delle isole del Pacifico, ma sta diventando globale. Era stato abbandonato nell’agosto del 2007, il giorno in cui il mondo scoprì cos’è un «subprime», e ora torna. Era un virus diffuso fra grandi o piccole monete d’area, lo yen, il kiwi (dollaro neozelandese), l’aussie (dollaro australiano). Adesso invece è un contagio che tocca il dollaro americano, e rende la coda della crisi simile a una tassa sull’export europeo e italiano. Lo sport ha l’intraducibile nome di «carry trade»: una banca o un fondo prendono in prestito del denaro in un Paese dove i tassi d’interesse sono bassi e lo reinvestono in un altro Paese in cui i rendimenti sono più elevati. Fino al 2007 ci si indebitava in yen (allo 0,5%) e si prestava in kiwi (al 6,5%) su scadenze brevi, con plusvalenza del 6% a patto che i mercati dei cambi non si muovessero nel frattempo. Poi quei giochi sono stati archiviati. Adesso tornano, più in grande stile e con rischi che si diramano fino all’export del «made in Italy». Perché a questo punto la valuta su cui gli speculatori del «carry trade» si alimentano è il dollaro, che la Federal Reserve presta a tassi quasi zero e con interventi per abbassare i costi del credito sulle scadenze medio- lunghe. ormai un fattore chiave della debolezza del dollaro (ieri un’altra scivolata a 1,48 per un euro) e dell’esplosione dei mercati emergenti in parallelo a quella dell’oro, che rimpiazza sempre più la principale moneta di riserva: ieri, un nuovo record a 1064 dollari l’oncia. «Il carry trade sul dollaro è uno dei grandi fenomeni di questa fase» spiega Stephen Butler, direttore del valutario a Scotia Capital di Toronto. «Indebitarsi in biglietti verdi è conveniente, ma il denaro non resta in America: in gran parte viene investito negli emergenti, perché lì i tassi sono più alti e da lì tutti aspettano l’avvio della ripresa mondiale». Nella pratica, vuol dire una cosa sola: ogni giorno le banche liquidano centinaia di miliardi di dollari presi a credito per investire in Indonesia, India, Brasile, Argentina, Turchia, Russia, Tailandia. Ma la massa di vendite sulla valuta Usa contribuisce a affossarla, e non a caso da marzo ha perso il 18% sull’euro e da inizio anno è sotto del 45% circa sul real brasiliano, una delle mete più popolari del «carry trade». All’altra estremità dell’equazione, i listini dei Paesi emergenti esplodono per l’afflusso di liquidità: malgrado le perdite di oltre il 20% in gennaio e febbraio, la Borsa indonesiana è su dell’87% da inizio anno, quella brasiliana del 68%, l’Argentina del 96%, l’India del 75% e la Russia del 98%. Grazie alle tecnologie e alla libera circolazione dei capitali, ogni «carry» o «trasporto » di fondi agli antipodi è sempre a distanza di un click. Ce n’è abbastanza per complicare la via dell’Italia verso la ripresa e quella del mondo verso un equilibrio più solido. Giorni fa Olivier Blanchard, capo-economista del Fmi, aveva puntato il dito sul «carry trade» verso gli emergenti come esempio di comportamenti «preoccupanti» che ritornano. E chi può si difende. In Asia, le banche centrali rispondono comprando dollari per limitarne la caduta e difendere così la competitività di prezzo del loro export: la Cina ha accumulato riserve per 177 miliardi di dollari solo nel secondo trimestre 2009, anche l’Australia interviene e la scorsa settimana sono rientrate in forza sui mercati le autorità di Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Tailandia, Hong Kong e Indonesia. La zona-euro invece sta a guardare, lasciando che il «mercato» determini il cambio. Marco Annunziata, capo economista di Unicredit, vede un doppio rischio in queste nuove distorsioni. Il primo è che arrivino nuovi scossoni non appena la Fed inizierà a ritirare liquidità e alzare i tassi: «La strategia d’uscita per la Fed diventa più complicata, costosa e pericolosa», dice. Ma il secondo, aggiunge, è che l’Europa e il suo export, anche italiano, diventino i vasi di coccio dei nuovi squilibri globali.