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 2009  ottobre 14 Mercoledì calendario

I complici del kamikaze con 40 chili di esplosivo - Si incontravano la sera in cortile, sotto la statua di gesso della Madonna

I complici del kamikaze con 40 chili di esplosivo - Si incontravano la sera in cortile, sotto la statua di gesso della Madonna. Qualche volta finivano in cantina, a trafficare con quelle badilate di diserbante, quaranta chili ne hanno trovati, che opportunamente innescato avrebbe potuto tirare giù un palazzo. «Hanno fatto una cavolata. Una cavolata senza senso. Mohamed lo conosco bene. Faceva l’elettricista, non l’ho mai sentito parlare di religione», prende le distanze Manal che tutti chiamano Monica, egiziana del Cairo da dieci anni in Italia, foulard bianco e tunica colorata e infradito, la vicina della casa di fronte, scala G, via Civitali 30, la «casbah» dove vivevano questi terroristi senza passato e zero futuro. Mohamed Game l’elettricista ha perso una mano e gli occhi. Abdel Hady Kol, idraulico egiziano, lo hanno portato via i carabinieri nella notte. L’altro libico, Mohamed Israfel, occhialoni neri e felpa scura, è stato preso dagli agenti della Digos in via Gulli a cento metri da qui, alla fine della ennesima intervista. «Il mio amico ce l’aveva con i soldati italiani in Afghanistan. Prima, della religione sapeva niente», diceva quando era ancora a piede libero eppure già nel mirino, sospettato di avere accompagnato l’altro Mohamed fino alla caserma Perrucchetti, dietro l’angolo, dall’altra parte dello stadio di San Siro. In via Civitali 30 abitano quattro Abdel, un Ahmed, un Asif, un Ayad, un Ashraf e siamo solo alla prima lettera dell’alfabeto. Dall’altra parte del marciapiede di questo casermone con i muri scrostati dove frugano agenti e telecamere ci sono la macelleria islamica, il supermarket islamico, il phone center mediorientale, un paio di kebab e l’agenzia di viaggi specializzata con il Maghreb. Le donne hanno il foulard tradizionale. I ragazzini le sneakers finte Usa ai piedi. Gli uomini hanno stampata in faccia la sorpresa di chi giura di sapere niente. Osman abita al terzo piano della scala E, sopra Mohamed l’elettricista che si è fatto esplodere le dita. «Io lavoro dodici ore al giorno. Sono camionista. Non ho tempo di pensare a queste cose. Non ho tempo neanche di andare in moschea», dice prima di chiudere la doppia persiana in faccia al mondo. La moschea è quella di viale Jenner dall’altra parte della città. Stesso universo di qui dove le paraboliche sono puntate verso Sud. Qualche italiano che vive nella «casbah» storce il naso. Manal l’egiziana si stringe nelle spalle: «Per colpa di uno non dobbiamo pagare tutti. Qui siamo tutti tranquilli. Viviamo bene. E poi Mohamed non era un bravo musulmano. Andava in moschea solo durante il Ramadan come facciamo tutti. E poi viveva con una donna straniera senza essere sposato». Noi e loro, anche se i muri sono scrostati per tutti. E identico è il cortile, con le biciclette arrugginite in un angolo e un cadavere di scooter depredato di ogni cosa. Ma i due mondi non comunicano. «Noi cerchiamo solo di vivere bene senza dare fastidio a nessuno», dice Al Mulk dietro al bancone della macelleria, carne rigorosamente di manzo, clienti rigorosamente non italiani. «L’islam c’entra niente. E’ solo il gesto di un gruppo di disperati», minimizzano in via Civitali 30, la «casbah» dove metà degli appartamenti sono occupati, da extracomunitari e non solo. Come Mohamed il libico che insieme a Giovanna M., la sua compagna italiana, aveva scavalcato un balcone, sfondato la porta ora chiusa dai sigilli della polizia e insieme ai loro bambini - Davide, Alessandro, Islam e Omar, due padri diversi, due generazioni religiose - si era insediato in questo posto dimenticato da Dio, senza bagno e acqua corrente, dove da tre mesi si era inventato di fare la jhad contro con un po’ di filo elettrico e il diserbante. In un appartamento inadatto anche come covo, figuriamoci viverci dentro.