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 2009  ottobre 14 Mercoledì calendario

IN PREGHIERA DAVANTI ALLA FOTO DI BIN LADEN. QUELLA CELLULA ANOMALA PRONTA AL MARTIRIO


L´enigma della caserma "Santa Barbara" si scioglie in una sola notte di lavoro a perdifiato della Digos di Milano. E per usare le parole di Armando Spataro, procuratore aggiunto di Milano, «si può ora dire che la storia, ragionevolmente, finisca qui». Mohamed Game si conferma un "martire per caso", incubato in un bozzolo di disperata marginalità esistenziale e di abborracciata complicità - un idraulico egiziano di 52 anni di nome Abdel Haziz Mahmoud Kol e un elettricista libico di 33, Mohamed Israfel Imbaeya - che fa comodo chiamare "cellula", ma che della cellula ha solo i numeri e il canone formale. Non l´armatura ideologica e religiosa dello jihadismo militante, non la sua feroce perizia ed organizzazione, non legami operativi con la casa madre del Terrore, non disponibilità economiche. E che non per questo fa meno paura. Anzi. Perché ha il suo tratto distintivo nell´approssimazione nel maneggiare gli strumenti della violenza che aveva immaginato, nella rozzezza del suo progetto di morte. Perché svela di quale grana sia fatto il Terrore "fai da te", espressione non a caso scelta per fotografare i fatti delle ultime quarantotto ore nel documento di analisi consegnato ieri pomeriggio dal vertice dell´Antiterrorismo, l´Ucigos, al ministro dell´Interno Roberto Maroni riunito nel Comitato nazionale per l´ordine e la sicurezza.
Per il nostro Paese, i tre invisibili di San Siro - Mohamed Game, Abdel Haziz Mahmoud Kol, Mohamed Israfel Imbaeya - sono a loro modo un inedito. «Riscrivono - ragiona una fonte qualificata dell´Aisi, la nostra intelligence interna - le categorie tradizionali di analisi secondo le quali lo jihadista o si forma e si indottrina nei santuari religiosi del Medioriente, o si radicalizza nei paesi occidentali di adozione, il cosiddetto homegrown terrorist, il terrorista della porta accanto, quello di seconda generazione, ovvero subisce il contagio carcerario. Mohamed Game e i suoi due complici non corrispondono a nessuno di questi tre profili. Erano invisibili alla capillare rete di prevenzione di polizia, perché con le carte a posto. Un regolare permesso di soggiorno. Un lavoro. Nessun precedente penale di un qualche rilievo. Nessun contatto o amicizia "sensibile" in ambienti radicali. Ma i tre erano ben visibili alla cosiddetta rete di controllo sociale. E lì, evidentemente, qualcosa non ha funzionato». Il capo della Polizia, Antonio Manganelli, lo dice in altro modo, ma il concetto è identico: «L´integrazione può servire ad evitare fatti come quelli di Milano, compiuti anche da immigrati di seconda generazione, perfino integrati nel mondo occidentale, ma evidentemente non ancora pronti ad essere assorbiti nella nostra cultura».
Del resto, nella repentina traiettoria che ha trasformato Mohamed Game da imprenditore edile in martire del lunedì, molti sembrano non aver voluto vedere. O comunque non aver saputo vedere. E, appunto, questa volta la prevenzione di polizia non c´entra. Per dirne una, nelle maglie sufficientemente larghe della vendita al dettaglio di fertilizzanti chimici, non hanno dato nell´occhio, né suscitato perplessità, quei tre maghrebini che, nelle settimane scorse, avevano acquistato in un consorzio di Corvetta (a 30 chilometri da Milano) 120 chili tra nitrato di ammonio e altri reagenti chimici. Poco per un uso agricolo. Abbastanza per un uso diverso. E che di quel nitrato, per altro, avevano chiesto, senza ottenerlo, la qualità con maggiore concentrazione di azoto. Ancora: i figli di Mohamed Game (due naturali, due avuti da Giovanna, la compagna italiana, da una precedente relazione) erano affidati ai servizi sociali del Comune di Milano. L´appartamento occupato di via Civitati era stata oggetto di un lungo contenzioso con l´istituto di case popolari. Forse, se in questo ultimo anno, qualcuno avesse messo piede in quei 30 metri quadri avrebbe scoperto - come ha raccontato Giovanna agli investigatori quando ormai era troppo tardi e come la polizia ha potuto constatare al momento della perquisizione dell´appartamento - che Mohamed, ingegnere elettronico, si era messo da un po´ di tempo a recitare con devota ossessione la sura della Vacca («l´apice del Corano», nelle parole del Profeta) di fronte a uno screen-saver del computer che ritraeva Osama Bin Laden. E forse, se qualcuno nel condominio di via Gulli 1 non avesse girato la testa e non avesse finto di non sentire il tanfo di acetone e ammoniaca che arrivava dall´appartamento affittato da Abdel Haziz Mahmoud Kol e trasformato in "bomb factory" da Game, le cose sarebbero andate in altro modo.
Del resto, questa volta non ha funzionato neppure la cintura di protezione e guida della comunità islamica. Abdel Amid Shaari, presidente del centro islamico di viale Jenner, non si sottrae. «Il peso di quello che è accaduto - dice - lo paghiamo innanzitutto noi. Ma, con tutta onestà, che cosa potevamo fare di più? Dei tre che sono stati arrestati, si conosceva di vista solo Game. E non parlava con nessuno. Non si è mai aperto. Per i suoi guai non ha mai chiesto un aiuto che forse avremmo potuto dargli. Una cosa però vorrei capirla. Se davvero si ritiene che la comunità islamica di questa città possa essere un sostegno decisivo all´integrazione e alla convivenza pacifica, un luogo di aiuto e prevenzione, allora vorremmo non ascoltare più le parole di odio che continuano ad accompagnare la nostra richiesta per una moschea. Chiediamo troppo?».