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 2009  ottobre 12 Lunedì calendario

LA GUANTANAMO DEI PIEMONTESI

Si concentrarono nelle zone più povere del Mezzogiorno: erano ribelli, soprattutto pastori e contadini, ma vennero subito soprannominati in modo sprezzante «briganti». Dopo l’unità d’Italia misero a ferro e fuoco Basilicata, Campania, Molise e Abruzzo, lanciando un’offensiva che a Torino e a Roma fece temere una vera e propria rivoluzione. In realtà, istanze sociali e politiche si intrecciavano a forme di delinquenza comune, finchè il neonato Stato italiano, tra 1860 e 1870, riuscì a stroncare il fenomeno. Protagonista fu il generale Enrico Cialdini, a cui furono conferiti poteri eccezionali: la repressione fu senza pietà, con arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie.
Tutti i criminali meridionali dovrebbero essere deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di chilometri dal Belpaese. In Patagonia, per esempio». Non si tratta dell’ultima provocazione leghista. E nemmeno di qualche folkloristica proposta proveniente dal profondo Nord.
Intenzioni e progetto portano la firma di un presidente del consiglio italiano: Luigi Federico Menabrea. Siamo nel 1868, l’Italia unita muove i suoi primi passi e deve affrontare un problema enorme: il brigantaggio al Sud. Nemmeno la pena di morte sembra dissuadere i briganti, che sempre più numerosi si riuniscono in bande. Così il governo italiano decide di cambiare strategia: deportare i briganti dall’altra parte del pianeta, in modo da recidere affetti e rapporto con il territorio. Un progetto perseguito per oltre dieci anni e che fallì solo per la ritrosia dei Paesi stranieri a cedere aree per impiantare una colonia penale per meridionali italiani.
Deportazione di massa
A rendere pubblico il piano di deportazione è stata la «Gazzetta del Mezzogiorno». Il giornale di Bari ha rintracciato il progetto della «Guantanamo» piemontese nei documenti diplomatici conservati all’Archivio storico della Farnesina. Secondo le carte, il presidente Menabrea provò prima a sondare gli inglesi, chiedendo loro un’area nel Mar Rosso, senza riuscirci. Quindi, il 16 settembre del 1868, il capo del governo italiano contatta il ministro della Croce a Buenos Aires, perché domandi al governo argentino la disponibilità di una zona «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro, che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia».
Anche questo secondo tentativo, oerò, si trasforma in un buco nell’acqua, perché tre mesi più tardi, il 10 dicembre, Menabrea è già all’opera per trovare soluzioni alternative. Contatta il console generale a Tunisi, Luigi Pinna, e gli chiede di «studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana». Ma anche i tunisini oppongono un no.
A questo punto Menabrea ritorna alla carica con gli inglesi. Prima chiede loro di poter costruire un «carcere per meridionali» sull’isola di Socotra (tra la Somalia e lo Yemen), quindi domanda loro di farsi perlomeno da tramite con l’Olanda, perché conceda un’autorizzazione identica per un’area del Borneo.
Menabrea e il governo italiano sono assolutamente convinti della necessità di deportare i criminali del Sud. Il senatore Giovanni Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri, incontrando il ministro d’Inghilterra sir Bartle Frere, si spingerà a dirgli: «Presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte».
 l’idea di abbandonare la famiglia, il Paese natale, il deterrente che il governo considera la carta giusta per sconfiggere il brigantaggio. Tanto più che in quegli anni sta nascendo il mito di alcune figure come Carmine Crocco, detto Donatelli, brigante che riesce a riunire intorno a sé una banda composta di almeno 2500 uomini e che viene visto come un eroe dalla popolazione locale.
Centro penitenziario
Le istanze del governo italiano, però, cadono nel vuoto. Il 3 gennaio 1872 il governo inglese fa sapere di non vedere di buon occhio la creazione di un centro penitenziario per i meridionali italiani. Il 20 dicembre di quell’anno anche l’Olanda si defila: concentrare criminali italiani in un luogo circoscritto viene visto come un problema per la sicurezza interna.
Gli ultimi tentativi risalgono al 1873. Il lombardo Carlo Cadorna, ministro a Londra, prende contatto con il conte Granville, ministro degli Esteri inglese, ancora per il Borneo. E ancora una volta, da Londra, arriva un rifiuto.
Raffaele Nigro, lei è autore del libro «Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri»: conosceva le carte diplomatiche che dimostrano il progetto di una Guantanamo piemontese per arginare il brigantaggio?
«No, ma sono documenti in linea con il contesto di quegli anni».
Come mai emergono solo oggi?
«Il brigantaggio, per certi versi, lo scopriamo solo oggi. Se n’è sempre parlato poco. I cartolari sono pubblici da pochi anni e da poco è accessibile l’archivio del ministero degli Interni».
Perché?
«Prima erano ancora in vita parenti stretti dell’una e dell’altra parte. Anche se potrebbe ancora far male per la presenza delle Leghe».
In che senso?
«Le discussioni sull’Unità non aiutano ad aprire certi archivi e ad analizzare con serenità un momento storico piuttosto travagliato».
C’è anche il Partito del Sud?
« una compagine diversa da quella dei vecchi partiti neoborbonici, legati all’estrema destra e piuttosto innocui poi dal punto di vista elettorale. Penso che la componente identitaria sia più legata a esigenze concrete che non a nostalgie che potrebbero vedere nel brigantaggio un’icona».