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 2009  ottobre 12 Lunedì calendario

DALAI LAMA ALLA CASA BIANCA L’INCONTRO RINVIATO



Il comportamento del presidente Barak Obama è stato per me una delusione.
Mi riferisco alla sua decisione di non incontrare il Dalai Lama in visita a Washington. Obama dovrà recarsi in Cina in novembre e non vuole incrinare i rapporti tra gli Usa e la Cina. Il Paese è ben noto per il mancato rispetto dei diritti umani, ma è un po’ meno noto per essere il maggior finanziatore del debito pubblico americano.
Vanno a farsi benedire tutti i principi morali per non urtare la sensibilità dei cinesi, i quali non amano né il leader spirituale dei buddisti né i Paesi che lo ospitano. Se la nuova politica degli Usa è improntata su simili principi, dovremo aspettarci che Obama rifiuti un incontro con Israele per non fare un dispetto all’Iran? questo che l’America voleva dal suo giovane presidente oggi premio Nobel per la Pace?
Marco Chierici
marcochierici@libero.it

Caro Chierici,
La Casa Bianca, a quanto pare, aveva informato il Dalai Lama sin dal mese di giugno che il presi­dente lo avrebbe ricevuto, ma non prima della sua visita in Cina prevista per novem­bre. Dal canto suo il rappre­sentante del leader tibetano negli Stati Uniti ha dichiarato recentemente che il Dalai La­ma accetta la spiegazione di Obama e attende con piacere il suo incontro con il presi­dente degli Stati Uniti. Le for­me sono state salvate, ma non c’è dubbio (lo ammetto­no confidenzialmente persi­no i consiglieri di Obama) che il rinvio è stato deciso per non guastare il clima del viaggio a Pechino del presi­dente americano. Washin­gton sa che ogni incontro del Dalai Lama con un leader poli­tico occidentale suscita il ri­sentimento del governo cine­se e una sorta di quarantena, più o meno lunga, nei rappor­ti fra la Repubblica popolare e il Paese «colpevole».
So che a molti la decisione americana sembra un esem­pio di ipocrisia e opportuni­smo. Ma vorrei, caro Chieri­ci, che gli avvocati di una di­plomazia più energica ed esplicita si chiedessero per­ché altri leader europei (An­gela Merkel e Nicolas Sarkozy per esempio) abbia­no deciso di ricevere il leader religioso tibetano. Non credo che lo abbiano fatto nella con­vinzione di potere giovare al­la causa del Tibet e dei diritti umani. Non sarebbero perso­nalità politiche con grandi re­sponsabilità di governo se ignorassero che i loro gesti simbolici e le loro pubbliche esortazioni non sortiranno a Pechino alcun risultato. Quando ricevono il Dalai La­ma lo fanno semplicemente per dare soddisfazione al lo­ro elettorato e per impedire che una parte di esso venga conquistata dall’opposizio­ne, a cui non spiace (quale che sia il suo colore) assume­re atteggiamenti popolari di cui, comunque, non pagherà il prezzo. Chi è al governo, in­vece, deve spesso scegliere fra mali minori e mali peggio­ri. In questo caso il male peg­giore, non soltanto per gli Stati Uniti, è indubbiamente la crisi di quel patto di reci­proca fiducia fra il «grande debitore» e il «grande credi­tore » che Washington e Pe­chino hanno stretto negli scorsi mesi.

Credo che le stesse conside­razioni valgano per l’altro esempio menzionato nella sua lettera. Può darsi effetti­vamente che la politica di Obama verso l’Iran abbia per effetto, nelle prossime setti­mane, qualche mossa sgradi­ta a Israele. Ma se questa mos­sa servirà a ridurre la perico­losità dell’Iran e ad accresce­re la stabilità della regione, lo stesso Israele, alla fine, dovrà esserne grato.