Sergio Romano, Corriere della sera 24/09/2009, 24 settembre 2009
LUTTO PER I SOLDATI MORTI FRA PATRIOTTISMO E PACIFISMO
La morte è sempre inaccettabile per l’uomo, ma non disturberei eroi e patria per i paracadutisti italiani morti in Afghanistan. Sono morti sul lavoro, professionisti che hanno scelto con consapevolezza un mestiere a rischio e un ingaggio pericoloso.
Vanno compianti e ricordati. Ma non se ne può fare dei martiri. Ben diversi devono essere nella nostra memoria collettiva il rispetto e l’onore riservato a coloro che da coscritti caddero nelle guerre in cui il nostro Paese fu coinvolto.
Nanni Bevilacqua
nanni.bevilacqua@hotmail.com
Caro Bevilacqua,
Gli onori che la società rende ai morti, quando il modo della loro scomparsa colpisce la sua immaginazione, non sono mai disinteressati e neutrali. Dietro ogni pubblica manifestazione di cordoglio vi è sempre un giudizio, un segnale, una tesi. Quando nel novembre del 1921 la salma del «milite ignoto» fu trasportata da Aquileia a Roma per essere collocata sull’altare della patria, il treno procedette lentamente fermandosi a ogni stazione tra folle che attendevano il suo passaggio per rendere onore alla salma. A Roma il feretro venne deposto per qualche ora nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli dove fu accolto dal re, dalle bandiere di tutti i reggimenti, da una folta rappresentanza di veterani, medaglie d’oro, madri e vedove di caduti. Il dolore, in quella circostanza, fu accompagnato da un sentimento di gratitudine. Gran parte dell’Italia accorsa a salutare il soldato morto gli era grata per avere contribuito con la sua vita alla vittoria e alla grandezza della patria. Il suo sacrificio, in altre parole, non era stato inutile. Quali che fossero le circostanze della sua morte, il milite ignoto era un eroe.
Mi sembra che le onoranze funebri di Roma negli scorsi giorni siano state l’opposto di quelle del 1921. A parte la straordinaria dignità delle famiglie, non vi era in queste onoranze il sentimento che la morte dei sei paracadutisti avesse giovato alla patria e fosse quindi «utile». Vi era anzi il sentimento che fosse inutile e che i morti, quindi, non fossero vittime soltanto dei talebani, ma anche di una politica assurda e sbagliata. La parola eroe ha assunto in questo caso un senso diverso: significa martire.
I responsabili delle istituzioni e il governo ne sono consapevoli. Sanno che l’applauso, al passaggio delle bare, contiene in realtà un giudizio negativo contro «coloro che li hanno mandati a morire». E temono che la cerimonia si trasformi da un momento all’altro in una manifestazione pacifista, antigovernativa o addirittura «anti- statale». Suppongo che molti, se potessero, preferirebbero non prendere parte a un evento che ha un fortissimo potenziale anti-istituzionale. Ma debbono parteciparvi nella speranza di controllarlo e di indirizzarlo, nella misura del possibile, verso significati più conformi a quello che ritengono essere l’interesse del Paese.
Quanto alla differenza tra soldati di mestiere e coscritti, caro Bevilacqua, abbiamo ricevuto altre lettere in cui si dice ancora più esplicitamente e brutalmente che i soldati del contingente afgano hanno fatto una scelta professionale e non meritano le nostre lacrime. A me sembra che nella scelta del mestiere delle armi esista molto spesso, quali che siano le condizioni economiche, una componente ideale; e che di questo, quando muore un soldato, occorra tenere conto.