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 2009  settembre 25 Venerdì calendario

LONTANO DA MOSCA

Nella regione di Vladivostok, a diecimila chilometri e otto fusi
orari dalla capitale, i russi parlano il mandarino e fanno affari con Pechino. Il reportage di Le Monde dal conine russo-cinese


La frontiera tra russia e cina corre per 4.192 chilometri lungo i fiumi Amur, Argun e Ussuri. Da vent’anni è teatro di un incessante andirivieni di merci e persone. In quello che è stato a lungo uno dei confini più blindati del mondo, oggi ci sono ventuno brecce: sono i valichi attraverso cui il mondo slavo comunica con quello asiatico. Anche nei più remoti, come il valico di Pogranichny, in una valle immersa tra i boschi a duecento chilometri da Vladivostok, non c’è tempo per annoiarsi. Per dodici ore al giorno, le guardie di conine hanno a che fare con turisti, commercianti e studenti che passano da un paese all’altro. Dal 2001 i residenti russi e cinesi delle
regioni di frontiera non hanno più bisogno del visto per espatriare. L’unica condizione è che viaggino in gruppo, ma questo non sembra disturbarli più di tanto. Uno shopping tour a Suifenhe – la prima città cinese dopo il confine, un vero e proprio tempio del consumismo a buon mercato – costa appena cinquemila rubli agli abitanti di Vladivostok, poco più di cento euro.
Negli ultimi vent’anni Suifenhe è cresciuta in modo esponenziale: prima del 1991 aveva circa ventimila abitanti, oggi ne ha più di 200mila. Alberghi, agenzie di viaggi e centri commerciali sono spuntati come funghi grazie al denaro dei turisti russi. ” impossibile non amare la Cina. Ci andiamo per fare la spesa, per curarci e anche a studiare. Da queste parti i ragazzi hanno cominciato a imparare il cinese: ormai vanno più spesso a Pechino che a Mosca”, racconta Andrej Kalachinski, professore universitario di Vladivostok e animatore dell’Associazione di amicizia russo-cinese.

Quand’era bambino, russi e cinesi si guardavano con difidenza e ostilità. Nel 1969, dopo ripetuti scontri armati sul fiume Ussuri, Mosca e Pechino si trovarono perfino sull’orlo di una guerra. Da allora i motivi di scontro si sono appianati. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica le relazioni si sono normalizzate e nel 2004 i due paesi hanno stipulato un accordo, perfezionato nel 2008, che mette fine alle dispute di frontiera. Mosca ha accettato di restituire ai cinesi la piccola isola di Tabarov e metà dell’isola Bolshoi Ussurijsk. ”La Cina non è più considerata una minaccia”, afferma soddisfatto
Kalachinski. E infatti suo figlio ”studia a Pechino e si trova benissimo”.
Sul versante russo la maggior parte delle scuole e delle università offre corsi di cinese. ”In passato pensavamo che la lingua del futuro fosse il giapponese. Oggi sappiamo che è il cinese”, assicura Liza, che studia mandarino al centro culturale cinese e attraversa spesso la frontiera. Della Cina ama soprattutto le città moderne e il fatto che la vita costa ancora poco. Il suo caso non è isolato. Sono molti i russi che hanno deciso di trasferirsi definitivamente oltre confine.

L’arma della demografia

A Vladivostok molte agenzie immobiliari si sono specializzate nella vendita di appartamenti e ville a Suifenhe, Hunchun o Dalian. ”Molti comprano casa in Cina perché le spese di condominio sono più basse e la qualità dei servizi è migliore che in Russia”, spiega Suei Hueilin, editore di un giornale di annunci commerciali a Vladivostok. Originario di Suifenhe, si è trasferito in Russia due anni dopo la repressione di piazza Tiananmen. Anche se non era un dissidente vero e proprio, allora Suei studiava a Pechino e faceva quindi parte del movimento universitario. Per i ragazzi come lui, nel 1991 la Russia, appena uscita dal totalitarismo sovietico, rappresentava la terra della libertà e delle opportunità. Oggi Suei è cittadino russo e ha due figlie, russe anche loro.
I matrimoni misti, però, sono ancora piuttosto rari. ”Le nostre tradizioni sono molto diverse”, ammette. In effetti il contrasto tra i due mondi è evidente. ”Qui in Russia tutto è fermo, mentre oltre il confine le cose cambiano molto velocemente”, spiega
Suei. I dati demograici sono emblematici: in tutto l’estremo oriente russo e in Siberia ci sono sette milioni di abitanti. Dall’altra parte dell’Amur, solo nelle province di Heilongjiang e Jilin vivono 148 milioni di cinesi. Ma la pressione demografica e la forte presenza economica di Pechino possono davvero rappresentare un motivo di preoccupazione per la Russia? difficile dare una risposta: se a Mosca il pericolo cinese è avvertito con timore, a Vladivostok non è così. Da queste parti non si vedono le masse di cittadini cinesi, considerate dai russi una seria minaccia per l’integrità del paese. I cinesi sono tutti a lavorare nei mercati. Negli ultimi anni l’estremo oriente russo e la Siberia sono stati inondati da prodotti made in China. A Vladivostok, a Ussurijsk e a Khabarovsk immensi bazar offrono tutte quelle merci che la regione non riesce a produrre, anche a causa della sua scarsa propensione manifatturiera (qui ai tempi dell’Urss c’erano soprattutto industrie militari). Da oltre confine arrivano vestiti, scarpe, elettrodomestici, carne, frutta e verdura. Quasi tutto il commercio al dettaglio è nelle mani dei cinesi. La loro presenza è tollerata: hanno
tutti dei visti che gli permettono di fare affari sul territorio russo, ma nessuno ha il permesso di lavoro. Questa condizione ai limiti della legalità li rende facili vittime dei soprusi di poliziotti e funzionari pubblici, sempre in cerca di espedienti per arrotondare lo stipendio.

Pomogaiki e commercianti

Tre anni fa il Cremlino ha cercato di colpire la presenza cinese nel commercio al dettaglio, imponendo che nei mercati i venditori e i dipendenti incaricati di avere a che fare con i clienti fossero russi. Ma data la scarsità di manodopera locale, i commercianti hanno subito escogitato un trucco. Il testo della legge parla di ”mercati all’aperto”: per aggirarla i proprietari dei banchi hanno costruito delle coperture. Un altro rompicapo per le autorità è rappresentato dalla vendita di articoli fatti entrare in Russia nei bagagli dei turisti di ritorno dalla Cina. I cittadini russi, infatti, sono autorizzati a riportare in patria 35 chili di merce esente da tassazioni. Questa franchigia ha portato alla nascita di una nuova professione, il pomogaika, letteralmente ”quello che aiuta”: un piccolo commerciante che fa la spola tra due paesi trasportando beni da vendere. A Pogranichny, l’ultima città russa prima della frontiera, quasi tutti sono impegnati in quest’attività.
Dal gennaio del 2009, però, la situazione è cambiata. I doganieri hanno ricevuto l’ordine di smantellare questi traffici: oggi tutti i bagagli vengono perquisiti e talvolta le merci finiscono per essere sequestrate. Stabilire se i beni sono per uso personale o commerciale spetta alle guardie di frontiera. Ovviamente gli abusi sono frequenti, e i primi a farne le spese sono gli abitanti di Pogranichny.
In ogni modo nella Russia asiatica l’attività principale rimane il commercio di prodotti cinesi, di automobili giapponesi e di materiale edile sudcoreano. ”Qui non esiste un settore industriale sviluppato, e le imprese miste sono poche”, spiega Mikhail Terski, direttore del Centro di ricerche strategiche del Pacifico. ”Produrre costa caro, e comunque non saremmo in grado di fare concorrenza ai cinesi. La Cina è la fabbrica del mondo. Noi russi ci limitiamo a fornirle le materie prime”. In Russia, tuttavia, gli uomini d’affari cinesi non sono sempre i benvenuti. Ne sa qualcosa Xu Rongmao, presidente del gruppo Shimao, che aveva investito nella costruzione di un grande duty free alla frontiera tra i due paesi. I cinesi avevano puntato molto sul progetto, e in un batter d’occhio hanno costruito un gigantesco albergo a cinque stelle. Dopo l’inaugurazione, però, i partner russi si sono defilati e hanno ritirato gli investimenti. In Russia la burocrazia, la mancanza di trasparenza e la corruzione sono ancora la norma. ”In Cina la situazione è leggermente diversa”, spiega Terski. ”Le tangenti ci sono, ma le cifre da pagare sono assai più basse”. Ostacoli del genere impediscono una sana concorrenza economica: ”Un ambiente ostile scoraggia la concorrenza e lo sviluppo. Per attirare altri operatori dobbiamo
darci regole chiare e trasparenti. Ma devo ammettere”, continua Terski, ”che vedere i cinesi, i coreani e i giapponesi che fanno affari qui da noi mi preoccupa non poco”.