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 2009  settembre 25 Venerdì calendario

RACCHETTA ROSSA


Adriano Panatta si racconta «Grazie a Berlinguer andai in Cile a vincere la Coppa Davis»

Adriano Panatta, c’è questa sua au­tobiografia uscita per Rizzoli, Più drit­ti che rovesci , che è bellissima.
«L’ha letta?».
Sono arrivato al capitolo della Cop­pa Davis.
«La vincemmo nel 1976, in Cile, sot­to gli occhi di Pinochet, dittatore fasci­sta » .
Buona parte della sinistra italiana non avrebbe voluto farvi partire.
«Fu Enrico Berlinguer a sbloccare la situazione » .
Poi, il pomeriggio del doppio, lei e Bertolucci vi presentaste sul terreno di gioco con le magliette della Fila di colore rosso.
«Una provocazione. Quando la pro­posi a Paolo, negli spogliatoi, mi guar­dò allibito: ’Ahò, ma che sei matto?’. Io insistetti: ’A Pa’, pensa le facce dei ge­rarchi...’ » .

( Adriano Panatta ha 59 anni. Ogni volta che ci parli, pensi: è una leggen­da. I titoli vinti nel 1976 - oltre alla Da­vis con l’Italia, anche gli internaziona­li qui a Roma e il Roland Garros a Pari­gi - spiegano qualcosa, non tutto. C’è altro. Poteva essere il numero uno al mondo e invece arrivò ad essere solo il quarto perché oltre che a giocare, pen­sava, un po’, anche a vivere. Ad un cer­to punto, per somigliargli, smettemmo tutti di giocare a pallone e prendemmo una racchetta. Solo che il suo polso era come quello di Giotto. Ora è un signore simpatico, cortese, perbene. Ha tre fi­gli, e una moglie, sempre la stessa: Ro­saria ).

Prima di Rosaria?
«Mah. Giocavo sui campi di tutto il mondo. Da New York a Sidney... non so, non ricordo...».
Mita Medici.
«Sì... eravamo ragazzini, 23 anni: Francis Ford Coppola e Al Pacino vole­vano convincerci a convivere».
Loredana Bertè.
«Metà Settanta, credo... mi presenta­va i suoi amici del Piper. Un giorno mi dice: ’Dobbiamo passare a prenderne uno, a piazza Venezia, sotto al balco­ne’. Quando arriviamo, da lontano ve­do un tipo vestito da marziano: era Re­nato Zero » .
Lei, Panatta, era, ed è, di sinistra.
«Sì. E se c’è una cosa di cui vado fie­ro, è di aver reso il tennis, con le mie vittorie, uno sport di massa. Prima era una roba per pochi, il giro dei ricchi che giocavano nei circoli».
Lei è cresciuto al Parioli.
«Ero il figlio di Ascenzio, il custo­de » .
Ascenzietto.
«Mi chiamava così anche Nicola Pie­trangeli. Finché un giorno, a Bologna, non vinsi gli Assoluti battendolo in fi­nale.
Avevo 20 anni, ero diventato un tennista » .
Come spese i soldi della vittoria?
«Tornai a Roma e comprai un’Alfa Gt bianca, usata. Un milione di lire ton­do, tutto il premio».
E dove ci andò?
«A Formia, in ritiro. Ad aspettarmi, sulla porta dell’albergo, c’era Mario Be­lardinelli, il mio maestro di tennis e di vita. Rassegnato, mi disse: ’Ti sei speso tutto, eh?».
Dei ragazzi che studiavano tennis a Formia, lei è rimasto molto amico con...
«Con Paolo Bertolucci e Tonino Zu­garelli » .
Bjorn Borg.
«Ci sentiamo poco, ultimamente. Ma c’è grande affetto. Che tipo, Bjorn: capace di vuotare due bottiglie di vo­dka, restare steso fino al mattino, e poi giocare come se niente fosse».
Il più bravo tennista di sempre?
«Rod Laver».
E poi?
«Poi Federer, Borg, Sampras e Agas­si » .
Una volta, al Foro, durante un ma­tch, segnò la Roma e...
«E io, che sono sempre stato romani­sta, ero al servizio. Alzo la pallina ma... boato dall’Olimpico. Allora, mi fermo e chiedo al pubblico: ahò, chi ha segna­to? » .
Per lei, sempre un tifo pazzesco. Il coro era: Aaaaa/dri/a/no!
«Successe anche a Wimbledon, nel 1979. Sugli spalti del Centre Court, co­minciano a cantare a centinaia. I giorna­li inglesi, il giorno dopo, sprezzanti scrivono: camerieri italiani che lavora­no a Londra. Invece erano studenti ro­mani, e tra loro pure Enrico Gasbarra, l’ex presidente della Provincia».
La sua ultima partita.
«Nel 1983... all’inizio dell’anno, mi ri­trovai in mano una rivista specializzata, con la classifica Atp, che non guardavo mai: ma per leggere il mio cognome do­vetti arrivare al numero 38. In quel mo­mento pensai che fosse giunto il mo­mento e... beh, sì, allora chiesi di gioca­re ancora una volta, l’ultima, in Davis, contro l’Argentina».
Al Foro.
«Sì, volevo congedarmi dal mio pub­blico con una vittoria, magari su Vilas. Ma quando venne il giorno, non toccai palla. Non ne avevo più, la benzina era finita » .
Come fu l’ultimo sottopassaggio?
«Ero triste, stanco, svuotato. Poi mi venne incontro un bambino, un raccat­tapalle. Guardò il fascio delle racchette di legno che avevo sotto il braccio, e disse: ’Adrià, me ne regali una?’. Io ci pensai un istante, poi gli risposi: io non te ne regalo una, ma te le regalo tutte. Tieni. Tanto a me non servono più » .
Senta, Panatta: il suo tennis era una metafora di vita. Sempre all’attac­co, osando, e mettendoci fantasia.
«Ho anche perso molto, giocando co­sì. Ma mi sono sempre divertito. Sem­pre. E soprattutto, ora, non ho rimpian­ti » .