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 2009  settembre 25 Venerdì calendario

BAARIA, UN PASTICCIO DA DIMENTICARE


Non ho mai visto, al cinema, una cosi grande differenza fra i risultati e le attese.
Le attese erano state pompate, negli ultimi due anni, con pagine intere, dai quotidiani italiani che erano stati sapientemente mobilitati da un ufficio stampa con i fiocchi.
I deludentissimi risultati invece si possono vedere sugli schermi in questi giorni.
’Baaria” l’ultimo film di Giuseppe Tornatore è il fallimento colossale di un film logorroico e decisamente imbarazzante. Se non è stato premiato a Venezia, non è stato perché, come è stato ripetutamente scritto su vari media, ”Baaria” era stato lodato a Venezia dal suo produttore finale, Silvio Berlusconi, al quale, evidentemente, nel suo particolarissimo regime dittatoriale, è consentito solo dare i suoi soldi ai cinematografari italiani (25 milioni al solo ”Baaria”). per il resto deve astenersi.
La giuria del Festival del cinema di Venezia ha invece lasciato a secco di premi Tornatore perché, va bene essere politicamente orientati, ma c’è anche un limite a tutto. I giurati di Venezia infatti non potevano, non potevano proprio, permettersi di premiare una regia caotica, confusa, vuotamente caleidoscopica come quella di Giuseppe Tornatore in ”Baaria”. Essi debbono essersi detti: ”Salvatores è certo un amico, ma anche noi abbiamo una faccia. Più di tanto, non si può fare”. Allora, tanto valeva dare il leone d’Oro a Citto Maselli, un altro inconsistente beneficato di sinistra, dal regime dittatoriale di centro destra (la sua inconsistente pellicola si è beccata un milione di euro di contributi pubblici) .
Non è, intendiamoci bene, che Giuseppe Tornatore sia un cattivo regista. Per farlo passare alla storia del cinema basterebbe il suo ”Nuovo Cinema Paradiso” e, solo un passo indietro: ”L’uomo delle stelle”. Il fatto vero è che Tornatore non aveva (e non ha) il fiato per realizzare un film presuntuoso come ”Baaria”. Sarebbe come incaricare Lucio Fontana, il pittore dei ”tagli”, di affrescarela Capella Sistina. Fontana, non c’è dubbio, è stato, nel suo genere, un grande pittore ma, nella Capella Sistina, si sarebbe perso.
Lo stesso è capitato a Tornatore che si è perso, lui eccelso specialista di bozzetti intimistici, in una ridondante e circoscritta storia d’Italia del Ventesimo secolo, nella quale, a secco di un’ispirazione vera, per realizzarla, si è appoggiato, quì a Federico Fellini, là a Luchino Visconti e là ancora a Pupi Avati, in un miscuglio grottesco di citazioni e di stili fra di loro incompatibili: sarebbe come mischiare la Coca Cola con l’aranciata e il tamarindo. Tre bibite ottime, se bevute separatamente, ma imbevibili se mischiate assieme.
La strage di Portella della Ginestra, ad esempio, che, in altri film degli anni Sessanta, in bianco e nero e con pochi mezzi, aveva giustamente assunto le connotazioni di una tragedia corale e disperante, nella quale, terra e uomini, erano coinvolti, travolti e miscelati da quell’eccidio, nelle sequenze di ”Baaria” assomiglia all’asettico ed esagerato spostamento delle masse in qualche versione eccessiva dell’Aida all’Arena di Verona: c’è gente che corre di è di là, bandiere rosse al vento, campieri a cavallo sulle coste come se fossero degli apaches, vallate arse che non finiscono più fotografate con grande maestria. Ma manca del tutto il pathos, la tragedia, la rabbia, la disperazione, l’impotenza. Tutto è Carosello. A colori. Robetta anabolizzata, da vedere con noia e passar via presto.
Il guaio maggiore di Giuseppe Tornatore in ”Baiaa” è stato forse quello di disporre di 25 milioni di euro che la produzione gli ha troppo generosamente e troppo incautamente messo a disposizione. In quello malloppone di euro, Tornatore, ci è annegato. Ha ricostruito l’intero Corso di Bagheria in Tunisia. E ne è rimasto prigioniero.
Avendo realizzato in Tunisia il Corso di Bagheria che assomiglia a una sorta di via dei Fori Imperiali, Tornatore non poteva che utilizzarlo intensamente, nel corso del suo film, facendoci correre (e scorrere) di tutto. Dal bambino che, per andare a prendere un pacchetto di sigarette, corre, a passo da centometrista olimpionico, lo spazio infinito di una maratona. Corre così forte e così a lungo che, al pari di un jet, a un certo punto, non poteva che decidersi di prendere il volo. Cosa che regolarmente avviene.
Nell’infinito Corso di cartapesta scorre anche una processione religiosa, senza capo né coda, che non c’entra con il filo narrativo del film, con migliaia di comparse che, alla fine, viene dispersa (fra i bagliori accecanti dei lampi ed esplosioni di fuochi d’artificio che nemmeno in Iraq) da una pioggia torrenziale che, in Tunisia, deve essere costata l’iradiddio.
Nel Corso di ”Baaria” recita inoltre un federale fascista che, impettito, la percorre tutta come se fosse un disco rotto, seguito da un antifascista presentato come lo scemo del villaggio che, alle sue spalle, esibisce e mette in vendita le sue sterminate luganeghe. Infine, dopo questa infinita e ripetitiva (nei gesti e nelle poche parole gridate) sequenza, il rintronato venditore ambulante di insaccati di maiale, non viene bastonato dagli uomini della milizia nel frattempo incrociati (come sarebbe regolarmente avvenuto, a quei tempi) ma viene addirittura alzato da terra da questi ultimi e portato via, rigido in piedi, ma staccato dal suolo, in una sorta di trionfo, come se fosse la statua di legno colorato, pateticamente dondolante, di San Rocco, patrono degli animali da cortile.
E che dire della storia del protagonista principale del film, un povero pastorello, privo di tutto, gettato fuori dalla scuola elementare come se fosse uno scarto umano, avviato sui monti quando aveva sei anni, costretto dalla fame ad emigrare in una Francia ostile e crudele (da dove, però, stranamente, scriveva alla moglie, bella come una Miss Italia, delle lettere nelle quali spiegava che andava al cineforum una volta alla settimana) e che poi, tornato in Sicilia, trova il suo riscatto in un rinnovato impegno nella vita politica locale sotto i colori del Pci, del quale, prima diventa un leader comumale e poi sale fino a coronare il suo sogno borghese, accontentando anche le speranze del vecchio padre e annunciandogli, sul suo letto di morte, che è riuscito finalmente a farsi candidare alla camera dei deputati.
Se fossi in vecchio militante del Pci siciliano mi sentirei offeso per una storia raccontata cosi. Per Tornatore, in ”Baaria”, il mezzo più rapido per passare, nel giro di pochi anni, dall’indigenza all’agiatezza e, dall’aperto rifiuto, alla piena considerazione da parte degli altri, nel secolo scorso, in Sicilia, era quello di aderire alla mafia o di militare nel Pci.
Potrà anche essere stato vero, ma è sicuramente imbarazzante vederselo spiegare in modo cosi diretto e ultimativo. ”Baaria – Storia della repentina trasformazione di un pastorello in un borghese grazie al Pci”: questo dovrebbe essere il titolo rivisitato ma veritiero per tenere conto dell’effettivo contenuto del film di Tornatore.
Tornatore, in questo suo ultimo film, si comporta poi come Domenico Modugno che, dopo aver stravinto il Festival da Sanremo, nel 1958, con la canzone ”Nel blu dipinto di blu” nota anche come ”Volare”, quando la sua popolarità si afflosciò, tentò di ravvivarla con altre canzoni dove si faceva volare di tutto. Cosi Tornatore, ancora sotto shock dall’Oscar vinto con ”Nuovo Cinema Paradiso” il cui protagonista era lui da bambino, anche in questo film ci infila dentro un bambino di quel tipo. Insomma, Tornatore è ancora lì, al bambino del Cinema Paradiso. Ma ogni tentativo di ritornare a quel tema per cercare di ritrovare la magia che gli ha fatto vincere l’Oscar, dà risultati sempre peggiori. Anche il primo ”Nuovo Cinema Paradiso” del resto aveva fatto un flop nelle sale. Concorse all’Oscar solo dopo essere stato largamente sforbiciato su imposizione del produttore Franco Cristaldi. Solo dopo questa cura dimagrante e il successivo Oscar, ”Nuovo Cinema Paradiso” diventò un successo anche in Italia.
In un film cosi sgangherato, barocco e ridondante come ”Baaria” non potevano mancare anche un sacco di errori che farebbero andare in brodo di giuggiole il mio amico Mauro della Porta Raffo che, di professione, fa il collezionista di svarioni.
Ad esempio, la mucca che veniva trascinata nel solito Corso per poter essere munta in diretta nel bidoncino il latte necessario al cliente, è di razza frisona, quella a macchie bianche e nere. Una razza che, alla fine degli anni Trenta, era totalmente sconosciuta in Sicilia. I carabinieri poi portano delle divise che sono del tutto incompatibili con gli anni nei quali essi compaiono. E cosi via.
Insomma, per concludere, ”Baaria” è un film da dimenticare.