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 2009  settembre 25 Venerdì calendario

Satira e sentenze. Sono iniziati gli anni del castigo - Paradossale e dissacratorio è il linguaggio

Satira e sentenze. Sono iniziati gli anni del castigo - Paradossale e dissacratorio è il linguaggio. A volte parte da fatti di cronaca e li rende inverosimili o surreali. Fa ridere, ma può essere un pugno allo stomaco. Dal punto di vista del diritto, la satira non è cronaca. E non è quindi strettamente vincolata alla verità. Ma dalla verità deve trarre spunto. una forma estrema di critica che, non narrando ma esprimendo un giudizio, può avvalersi persino di un lessico aspro o di un tratto di penna dissacrante senza trascendere in ingiurie gratuite. Rispetto alla critica, che è solo un’opinione, la satira ha in più valore artistico. Quell’arte che, fin dai tempi antichi, ha avuto il ruolo di «castigare ridendo mores». E che, additando alla pubblica opinione aspetti censurabili di una persona, raggiunge con il frizzo e la riflessione un risultato etico. Tentare di imbrigliarla e di definirne i limiti è come tentare di afferrare il vento con le mani. Per la sua natura, la satira non dovrebbe avere limiti. O per lo meno, sono così evanescenti che, a fatica e nel corso degli anni, la giurisprudenza è riuscita a individuare una serie di paletti. Posizioni personali, a parte, vediamo come la tratta il diritto. Il diritto e il suo opposto. Giuridicamente resta materia complessa e delicata, spesso causa di sentenze discordi. Giorgio Forattini, in una vignetta, aveva messo in relazione Leoluca Orlando con la morte del maresciallo Lombardo. La scena era molto forte, ma Forattini fu assolto. Nonostante la vignetta non facesse ridere, il giudice aveva deciso che il diritto alla satira, in quel caso, meritasse tutela, anche a scapito della reputazione del querelante. Lo stesso autore, qualche anno dopo, è stato condannato, in sede civile, su iniziativa di Gian Carlo Caselli, per aver rievocato, con una vignetta assai simile, il suicidio del procuratore capo della Pretura circondariale di Cagliari Luigi Lombardini. Nonostante, ancora una volta, la vignetta non facesse ridere, la pretesa che il disegno dovesse riflettere la verità di quegli eventi e il mancato accertamento di tale presupposto ha indotto il giudice a privilegiare la reputazione dell’interessato. La vignetta fu pubblicata alla fine degli anni Novanta, la sentenza è del 2007. Il filo che tiene insieme questi due giudizi apparentemente contrastanti trova nella Costituzione il suo fondamento e nell’applicazione dei principi, da parte di soggetti diversi, il suo esito finale: la tutela del diritto alla satira e il suo opposto. Partiamo, però, dall’inizio. La satira è la forma espressiva con la quale si mettono alla berlina i potenti. Ne enfatizza i difetti con sarcasmo, ironia, trasgressione e paradosso. Esagera i fatti, li racconta con toni surreali e usa metafore dissacranti. Ancorata alla tradizione storica, dalle Nuvole di Aristofane in poi, è la più graffiante delle manifestazioni artistiche e per questo, per decenni, è stata considerata zona franca. La satira non ha la pretesa di raccontare la verità, ma ne contiene frammenti. Volendo rappresentare, in modo satirico, il terremoto d’Abruzzo, per esempio, si può ricorrere all’immagine della tendopoli. Si tratterebbe, però, di una fotografia della realtà. La satira è, invece, un pugno sferzante a tal punto da legittimare il ricorso a immagini più dure, quale la morte di molti innocenti. Come la vignetta che ha procurato a Vauro attacchi da destra e sinistra e una puntata di sospensione. Qualcuno potrà indignarsi e se si sentirà così offeso da proporre querela, ai giudici spetterà il compito di valutare se, con quella metafora, l’autore ha esercitato il diritto di satira o è andato oltre. Nel nostro ordinamento, la satira è tutelata dalla Costituzione, con l’art. 21, come forma espressiva e con gli artt. 9 e 33, per il pregio artistico che la contraddistingue. La Costituzione, tuttavia, tutela, con l’art. 2, pure i beni che la satira può ledere: l’onore, la reputazione e l’immagine della «vittima». La tutela di questi beni sarà possibile ricorrendo alla querela e al giudizio civile, tutelati da un’altra norma costituzionale, l’art. 24. Per il giudice si tratterà, quindi, di bilanciare interessi contrapposti e di medesimo rango (cioè costituzionali). E di stabilire, volta per volta, se la satira ha rispettato i limiti, nel qual caso l’autore non sarà punito; o se li ha superati, nel qual caso l’autore sarà condannato a risarcire i danni causati. Il limite della satira lo fanno le sentenze. Si tratta, dunque, di individuare quali sono i limiti entro i quali si può far satira impunemente. Quando si parla di satira e di comunicazione in genere, ci si riferisce al diritto vivente, per governare il quale le norme vengono applicate, con l’individuazione di regole che vengono applicate al caso specifico da un giudice che, come chiunque altro, è portatore di principi e convinzioni, derivanti dalla sua formazione sociale, religiosa e culturale. Entra in campo, in particolare, l’art. 51 del codice penale, secondo il quale chi commette un reato, esercitando un diritto, non è punibile. E l’art. 21 della Costituzione conferisce a chi fa satira, appunto, il diritto di farlo. A porre limiti alla satira, quale che sia la sua forma espressiva - vignette, opere teatrali, film, monologhi - sono le sentenze che, occupandosi di casi particolari, dettano criteri generali. Così, per esempio, grande rilievo è conferito alla dimensione pubblica del personaggio oggetto della satira. Come ha rilevato, a proposito del querelante, la Corte di Cassazione, nel 1992, assolvendo l’imputato, «proprio per aver scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlato alla sua dimensione pubblica». L’interpretazione spetta ai giudici. Come sempre accade in questi casi, il metro di valutazione della condotta dell’autore satirico è l’apertura intellettuale, la formazione politica, culturale, sociale e religiosa del giudice che, di fatto, si trova volta per volta a esaminare la battuta, il disegno o l’interpretazione di un attore, e valuta. In scienza, secondo le norme e i precedenti, e in coscienza, filtrandoli attraverso le proprie convinzioni. Ogni caso viene sviscerato, analizzato e arriva a un giudizio specifico. Gli avvocati difensori, infatti, dal canto loro, utilizzano le sentenze più «illuminate» che, negli anni, hanno giudicato, assolvendoli, gli autori di satira. E cercano di applicare alla propria causa i criteri applicati in quei casi. Per esempio, dimostrando che l’opera in questione rientra a pieno titolo nel diritto di satira. Appunto l’enfatizzazione e il paradosso. Quanto più una storia è fuori da ogni logica tanto più è «facile» difenderla. Attenzione, però. Nel caso di attori come Maurizio Crozza, che entrano nei panni del personaggio, tanto maggiore è la somiglianza con l’originale, tanto più la satira è obbligata a essere in qualche modo aderente alla realtà. Per fare un esempio, se un attore satirico rappresenta un personaggio noto, indossando una giacca, dalle cui tasche fuoriescono banconote, adombrando che si sia fatto corrompere, è necessario che la magistratura abbia almeno ipotizzato la cosa. Dimensione pubblica e verità. La suscettibilità personale non può essere un metro di valutazione della condotta, perché è normale che la «vittima» non gradisca. In particolare, come abbiamo visto, tanto più una persona è nota tanto più i limiti della satira diventano ampi ed elastici. Per raggiungere il suo scopo (attaccare e criticare i diversi aspetti della società, di un ambiente, di un individuo) la satira offre spesso al pubblico una chiave di lettura di un determinato fatto di dominio pubblico. Per stigmatizzare una manifestazione eccessiva di potere, può rendersi necessario l’uso di tecniche che enfatizzano ironicamente la drammaticità di un evento. In teoria due sarebbero le situazioni per cui si può condannare un’espressione satirica. L’offesa gratuita o l’evocazione di un fatto mai verificatosi o svoltosi in modo del tutto difforme dalla sua rappresentazione. Se pure in modo paradossale, infatti, la satira non può totalmente astrarsi dalla realtà o questo è quantomeno quel che sostengono le sentenze più recenti. Rivolgiamo qualche domanda a Caterina Malavenda, il legale che assiste, oltre a numerosi giornalisti, testate come il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore, Panorama, la Rai e Sky. stata l’avvocato difensore di Forattini e Vauro. Avvocato, tempi duri per chi fa satira? «Direi che sono tempi duri per chiunque faccia informazione o esprima opinioni non convenzionali, quindi anche per chi fa satira. Dopo un periodo in cui questa forma espressiva ha goduto di una sostanziale impunità, si assiste ad un progressivo ridimensionamento della giurisprudenza più favorevole, con il ricorso, però, a criteri estranei alla satira in quanto tale. Com’è noto, chi fa cronaca e chi formula un’opinione critica, ha l’obbligo in particolare di riferire o richiamare fatti veri. In difetto, l’interessato non potrà godere della scriminante garantita dall’art. 51 del codice penale e della conseguente impunità. La satira, non avendo la pretesa di raccontare fatti, nè quella di formare l’opinione pubblica con un contributo diretto, non è assoggettabile ai criteri tradizionali. Ed allora, soprattutto quando l’intervento satirico non suscita ilarità, ma sgomento o indignazione, si tende ad escluderne la riconducibilità nell’ambito della satira, riconducendolo nell’alveo più rigido della critica. Ove i fatti di riferimento risultino difformi dalla rappresentazione iperbolica e paradossale che ne ha dato l’autore, cosa che accade sovente, lo si condanna per diffamazione. In sostanza, solo snaturando la satira e riportandola nei più angusti limiti del diritto di cronaca e di critica si può condannare un autore satirico. Ed è quanto sta accadendo negli ultimi anni». Come vengono motivate le sentenze di condanna o di assoluzione? «I giudici, adempiendo al loro dovere, cioè applicando le norme vigenti, senza forzarle, possono condannare o assolvere, in presenza di fatti sostanzialmente analoghi, soprattutto richiamando il contesto, in cui la presunta diffamazione si colloca. Un esempio chiarirà meglio. Prendiamo il termine «azzeccagarbugli». un’espressione letteraria riferibile ad una persona che adopera i cavilli per raggiungere un risultato. Usato nei confronti di un giudice la si è ritenuta diffamatoria, poiché il giudice applica la legge e se cerca i cavilli, viene meno alla sua funzione, magari favorendo l’imputato. Usato per un avvocato acquista valenza diversa e per niente diffamatoria, perché cercare sottigliezze e ragionamenti per aiutare l’imputato è il suo mestiere.