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 2009  settembre 25 Venerdì calendario

Così si re-inventa la Germania - Al tramonto dell’età guglielmina nel 1918 Thomas Mann, in quel capolavoro di tedeschismo che erano (e rimangono) le Considerazioni di un impolitico, parlava di Berlino come di una «metropoli americo-prussiana» in cui si respira il «cosmopolitismo alla tedesca»

Così si re-inventa la Germania - Al tramonto dell’età guglielmina nel 1918 Thomas Mann, in quel capolavoro di tedeschismo che erano (e rimangono) le Considerazioni di un impolitico, parlava di Berlino come di una «metropoli americo-prussiana» in cui si respira il «cosmopolitismo alla tedesca».  una straordinaria affermazione «anacronistica», che può valere oggi in un senso radicalmente diverso. Ma come è possibile? Quante Berlino ci sono state soltanto nel secolo appena trascorso? La stupefacente, dirompente, creativa Berlino degli anni Venti; la Berlino del truculento trionfalismo del Führer; poi le bombe, i russi, le distruzioni (e le violenze sulle donne, oggi finalmente riconosciute ed elaborate nella memoria). E poi gli americani con la loro invadente generosità; la divisione della città e la ripresa drogata della parte occidentale diventata città-vetrina del «mondo libero». La Berlino cuore della guerra fredda è segnata da episodi drammatici: il blocco sovietico del 1948-49; la crisi del 1958-63. Ma anche il luogo della prima grande rivolta antisovietica nel mondo comunista, il 17 giugno 1953. Poi nell’agosto del 1961 l’erezione del Muro. Quest’ultimo episodio è il più traumatico, ma paradossalmente ferma e congela il ritmo mozzafiato precedente. Alla stabilizzazione politico-sociale coercitiva della Berlino orientale, capitale di un regime socialista «disciplinato» nel doppio senso della parola (controllato dal pervasivo sistema poliziesco della Stasi ma anche accettato e interiorizzato), corrisponde il dinamismo e l’irrequietezza della Berlino Ovest. Qui alla metà degli anni Sessanta nasce ed esplode il movimento di protesta studentesco, cui seguono alcuni episodi di terrorismo. Infine - dopo un attimo di pausa - l’incredibile notte del 9 novembre 1989 in cui il Muro viene aperto. Come ha potuto una città sostenere e metabolizzare questa imponente serie di accadimenti straordinari? In realtà, a vent’anni di distanza, il Muro si sente ancora, «rimane nelle teste». Questa espressione tradisce l’esistenza di una nuova estraniazione che separa sottilmente le due Berlino e le due Germanie. Soprattutto rende conto dell’incompatibilità delle loro memorie. In effetti la realtà è complicata. Tra l’altro la scomparsa del Muro ha messo in moto un processo di occidentalizzazione accelerata del pezzo di nazione che era rimasto «dall’altra parte», portando a compimento la sgermanizzazione dell’intera nazione. In realtà occidentalizzazione/sgermanizzazione è una coppia di concetti impegnativi, che implicano una rivisitazione storico-politica di non facile argomentazione. In particolare, il termine sgermanizzazione suona crudo. Ma qui va inteso in una stretta accezione politica e di cultura politica: segnala il fatto che la Germania, con la sua compiuta democratizzazione, abbandona due punti saldi del suo germanesimo politico storico: la fissazione sul «tipicamente tedesco» come valore in sé e la sua contrapposizione all’Occidente. Il rapporto dei tedeschi con l’Occidente è sempre stato tormentato, complicato ma cruciale. E ha costantemente implicato un continuo e reciproco aggiustamento. Thomas Mann, nel libro su ricordato, considerava la conseguenza della sconfitta militare tedesca e la connessa prospettiva della occidentalizzazione, anzi della «democratizzazione della Germania», come la sua sgermanizzazione/Entdeutschung. E aggiungeva che nell’ipotesi catastrofica di «una fusione delle democrazie nazionali in una democrazia europea e mondiale non / più nulla della sostanza tedesca». Paradossalmente aveva visto giusto, ma fraintendeva completamente il senso di una sgermanizzazione che - dopo un processo molto più doloroso e più lungo del previsto - avrebbe rappresentato la salvezza della Germania. Lo stesso Mann, del resto, lo avrebbe capito tempestivamente e in tempo politicamente utile, schierandosi a favore della democrazia di Weimar e combattendo apertamente dall’esilio americano il nazionalsocialismo, cui negava di rappresentare l’autentica Germania. Eppure spiritualmente (esteticamente) non avrebbe mai rinnegato le sue tesi «impolitiche» sull’essere tedesco e sulla sgermanizzazione. Qui prendo a prestito la sua idea di sgermanizzazione, intendendola come l’abbandono, o quanto meno un mutamento radicale dei paradigmi, della cultura politica con cui si è storicamente forgiata l’identità nazionale statale tedesca in contrapposizione all’Occidente. In particolare, la sgermanizzazione segnala il congedo definitivo da ogni aspirazione o velleità egemonica politico-culturale che era implicita nell’idea stessa del Reich tardo-ottocentesco prima ancora che culminasse nella hybris del Terzo Reich. Ma - ci si può chiedere - perché chiamare sgermanizzazione quello che gli storici di oggi considerano il felice «approdo della Germania nell’Occidente», il compimento della sua «lunga via verso l’Occidente», se non addirittura il ritrovamento della «via verso se stessa»? La sgermanizzazione non è forse semplicemente l’occidentalizzazione felicemente compiuta? In realtà, per molti aspetti, la sgermanizzazione della cultura politica tedesca e la sua elaborazione concettuale sono andate oltre il segno della semplice occidentalizzazione. Con particolare zelo, ad esempio, nel discorso politico si è registrato l’esplicito abbandono dei paradigmi costruiti attorno all’idea tradizionale dello Stato-nazione e dello Stato di potenza (Machtstaat) a favore dei paradigmi dello Stato come «potenza civile» (Zivilmacht), dell’assoluta centralità della società civile (Zivilgesellschaft) e quindi dei processi di civilizzazione (Zivilisierung). Ne sono rimasti coinvolti i concetti di nazionalismo e di nazione stessa, che sono stati messi in quarantena (se non al bando) per lungo tempo. Il sospetto verso tutto ciò che è nazionale, collocato nel cono d’ombra del tedesco-nazionale, ha portato alla elaborazione del «post-nazionale» Insomma, ritengo che l’espressione sgermanizzazione, nata storicamente carica di risentimento polemico (di cui quello di Thomas Mann è soltanto l’esempio letterariamente più efficace), possa ora essere usata per segnalare in modo sintetico e plastico l’abbandono e il mutamento di paradigmi, di concetti, di forme culturali che un tempo si sarebbero dette «specificatamente tedesche» in quanto antagoniste all’Occidente. Ma c’è da considerare anche l’aspetto complementare e positivo: la sgermanizzazione, riconvergendo con l’Occidente, implica un riassetto concettuale che porta a una sorta di riscoperta, di re-invenzione dell’idea di Germania.