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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

SCRITTORI CONTRO IL DIALETTO PER LEGGE


Il progetto della Lega non trova sostenitori tra i principali esponenti milanesi della cultura

Fo: ostentazione folkloristica. Cucchi: roba da festa paesana

C’è il cantautore in comasco laghée Davide Van De Sfroos, che organizza un festival per i giovani lombardi («Identità e Musica», al via il 15 ottobre al Dal Verme di Milano) e invita Francesco De Gregori a esibirsi in romanesco. C’è il Corriere della Sera, che allega i cd di Nanni Svampa, «cà de ringhera e veggia osteria». Iniziative, frutto, almeno queste, non di invettive ma di intese, che nascono all’ombra de la Madunina, nella città più meridionale d’Italia.

Iniziative che viene da chiedersi, però, il bossismo lo esorcizzano o lo esaltano? «Nessuna delle due», esclama lo scrittore Luca Doninelli. «Si può anche prescindere dal pensiero leghista, sa, a Milano. Svampa ha scritto dei capolavori quando Bossi era un perfetto sconosciuto. E Van De Sfroos per primo ci ha parlato dei lavoratori frontalieri, dei contrabbandieri che facevano la spola con la Svizzera. Il dialetto non è orgoglio, ti fa sentire la terra sulla quale sei cresciuto. Spero che un giorno filippini e senegalesi mi facciano conoscere i loro Nanni Svampa».

E pazienza se poi si dice convinto che quelli della Lega siano gente «di grande erudizione» («Hanno tanti centri studi, e ci dev’essere un motivo per cui nelle amministrazioni vogliono sempre gli assessorati alla Cultura»).

A lui replica pronto il Nobel Dario Fo: «Macché eruditi. Io ci ho provato a parlare di cultura coi leghisti. Non sanno niente della storia della Lombardia, del Manzoni, dei Moti del 1820-21 e delle Cinque giornate di Milano. E neppure gli interessa». Anche se forse Doninelli ha un po’ ragione quando dice che «un’idea del mondo, per quanto rozza, la Lega ce l’ha; un obiettivo politico, per quanto detestabile. Mentre lo stesso ahimè non si può dire di formazioni politiche più nobili come eredità».

Per Fo, «qualsiasi iniziativa di conservazione è lodevole se realizzata per ricerca e arricchimento. Ma quando è ostentazione folkloristica ai danni degli altri diventa una banalità. Vivere nel ’te se ricordet i temp indrée’, come fa la Lega, è solo ridicolo. Tanto più che quei tempi poi li ignora. I dialetti bisognerebbe sì studiarli, ma non certo imporli a scuola».

Aggiunge Aldo Nove, autore di Milano non è Milano: «La lingua è un fenomeno in continuo movimento, le sue radici sono spurie. Il significato delle radici non lo sento, potrei esser nato in provincia di Varese come in India. La mia Viggiù era un luogo di immigrati, dalla Sicilia, la Campania e la Sardegna. Un humus vitale, che beneficiava del confronto tra idioma locale e parlate forestiere. Perché il vero milanese è cosmopolita, aperto a tutte le influenze che possono arricchirlo. Comprese quelle islamica e cinese».

«Ben venga se un artista fa appelli per la riscoperta delle tradizioni», dice Francesco Bianconi, leader del gruppo indie-rock Baustelle, che ha firmato canzoni come Un romantico a Milano. «Ma la musica popolare è patrimonio di tutti. Non voglio che venga sfruttata per propagandare idee razziste, fasciste, ignoranti e qualunquiste come quelle della Lega. Certe manifestazioni di imbecillità farebbero anche ridere. Ma unite alle ronde e alla dittatura dell’informazione fanno temere un rincoglionimento del Paese. ovvio che il Va’ pensiero è ben più bello dell’inno di Mameli. Io non sarei contrario a sostituirlo. Anche una canzone di Lucio Dalla andrebbe bene. Non tollero però che la Lega se ne serva per fomentare sentimenti di divisione e intolleranza».

C’è poi chi, come lo scrittore Maurizio Cucchi, fa un distinguo. «Svampa ha scritto canzoni commoventi. Ma Van De Sfroos che spinge De Gregori a cantare in romanesco mi fa orrore. un’iniziativa sottoculturale».

Cucchi non usa il dialetto perché «bisogna scrivere nella lingua che si parla. In città il milanese non lo usa più nessuno. Non si può certo rivitalizzarlo con iniezioni di gente incompetente il cui scopo è solo quello di blandire chi sta già da quella parte. La Lega non ha mai dimostrato brillantezza intellettuale. Mi spieghino, per dire, cosa sarebbe la Padania. Prendono i soldi dall’Italia, poi dicono che non sono italiani. Tradurre un dibattito in lumbàrd, come hanno per il confronto tra Letizia Moratti e Flavio Tosi, abbassa solo il numero delle persone in grado di seguirlo. Roba da festa paesana al campo di bocce. Tanto più che il lombardo non esiste. Quando ancora il dialetto si parlava c’era già differenza tra quello di Lambrate e di Niguarda. E se un bergamasco parla con un mantovano nessuno dei due capisce niente».

E se non può sorprendere la risposta di Patrizia Valduga («Le tradizioni e l’uso del dialetto hanno senso solo se spontanei, dal basso. Imporli per legge, dall’alto, è demagogico e reazionario»), che dire di Vivian Lamarque, che un libro di poesie in dialetto milanese l’ha appena pubblicato, ma quando la interpelli se ne vergogna quasi? « stato un momento eccentrico», confessa. «Le ho scritte una trentina d’anni fa e le avrei tenute volentieri nel cassetto. Altro che dialetto. A scuola dovrebbero piuttosto insegnare qualche parola di arabo e cinese, così questi bambini si sentirebbero un po’ meno isolati».

Franco Loi ricorda invece «quando i padri picchiavano i figli perché parlassero solo in italiano, la lingua della promozione sociale. In Italia si è fatta una guerra perché la gente si vergognasse del dialetto. Ma uccidendo le parlate popolari l’italiano si inaridisce, diventa lingua senza corpo e senza forza. Al tempo stesso, nessun provvedimento legislativo può far rivivere una lingua. Quella di Bossi è la solita mossa elettorale assai maldestra. In Irlanda a scuola insegnano il gaelico, ma poi la gente dappertutto parla inglese, la lingua degli acerrimi nemici».

Padre di Cagliari emigrato a Genova, madre di Colorno e una nonna catanese, Loi, 79 anni, ha iniziato a scrivere in dialetto milanese «per fedeltà a un popolo». «Volevo parlare della gente conosciuta durante le miserie della guerra. E poi degli operai che hanno dato tanto da sperare alla città, gente straordinaria che si è sacrificata per un nuovo modo di convivere. vero, anch’io in casa con mia moglie, a cui ho dedicato più poesie di quelle che lei pensa, parlo in italiano. Ma il milanese non è morto. Lo parlano impensabili come senegalesi e iraniani. Lo parlano all’Isola, dove addirittura ancora dicono ’quando si va in città».

Poi legge una sua poesia degli anni 70, Me se regordi pü se chí, a Milan, ghe sia ’na piassa cun l’aria sensa temp. Racconta di uomini nella pioggia, di una panca e di un angolo cui non si arriva mai. «Adesso Milano è cambiata, la classe operaia non c’è più e io scrivo cose ben più tristi, a volte anche terribili. Di gente senza faccia che non riesco più a capire che sia».